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sabato 31 agosto 2019

C'era una volta Di Maio - By Fulvio Abbate


REUTERS
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Perfino nell’uscire di scena, Luigi Di Maio appare inadeguato. Causa fallimento, o quasi. O magari per conclamata modestia, penuria di idee, se non un semplice “grazie di tutto, ti faremo sapere!” da parte dei suoi amici della piattaforma Rousseau. Sembra davvero messa così la storia, il surplace del governo, comunque volga al termine l’attesa, sì, il countdown per il varo del nuovo esecutivo. “La vita di Cartesio è semplicissima” (“Vita Cartesii est simplicissima”) con queste parole il poeta Paul Valery apre un saggio sull’apparente complessità delle cose. Complesse solo a prima vista. Ovvero sovente tutto è molto più banale di come sembri, d’ogni sensazione e d’ogni timore.
Ed è forse, così temo, anche nel caso che vede Di Maio in primo piano, inclinato. Di più: con la silhouette del “Capo politico” del Movimento 5 Stelle, se non in campo lungo, ormai laggiù di sfondo. Capo politico, titolo che in una organizzazione che almeno sulla carta si pretende “orizzontale” non può che suscitare perplessità, forse addirittura ironia, risate liberatorie. Capo politico, e di cosa ormai?...
Le caratteristiche essenziali dell’esistenza del filosofo del Metodo mi sono tornate in mente facendo caso alla discussione sugli intoppi circa il possibile, tribolato, allestimento (non c’è termine più esatto, visto il tratto standistico che assume nelle parole dei grillini, maestri nel piallare ogni spessore dialettico, la nascita del Conte bis) del governo cosiddetto giallorosso, in bilico, o forse no, fin dal suo “carissimo amico”.
Chi, per passione, masochismo o vittima dei palinsesti estivi, si fosse imbattuto nei dibattiti televisivi dedicati al work in progress del governo, oltre ad avere certamente notato che la banalità trionfalistica del lessico calcistico è sempre più estesa alle questioni politiche, ora per manifesta mediocrità dei commentatori ora per presunto amore di chiarezza, avrà altresì rilevato che la vita professionale del “miracolato” (cit.) Di Maio non è mai affrontata in modo “semplicissimo”. Ignorando che si tratti di una creatura in vitro della Casaleggio associati, un ragazzo di Pomigliano d’Arco, nuovo soggetto occupazionale lì pronto a prendersi, comunque la si pensi, la scena, come nel remake di “Serafino”, nel senso della pellicola di Celentano. Al contrario, questa sua vita la si ingigantisce quasi contenga chissà quale immensità, il profilo di una imperdibile testa d’uovo. Quasi che nella mente luminosa di Luigi Di Maio vi fossero i crismi per un radioso futuro nazionale. Più modestamente, aldilà del giudizio complessivo, sia morale sia attitudinale, che si possa avere di Luigi Di Maio, mettendo da parte i pregressi, cioè la sua rivelazione sulla scena pubblica, allo stato odierno, anzi, al fotofinish appena scattato del precedente governo, dove il campione affiancava in religioso silenzio campano i razzisti della Lega, in questa storia pre-terminale prevalgono semmai i sentimenti primari che investono una persona in bilico rispetto al ruolo già faticosamente conquistato: paure, invidie, orgoglio, risentimenti, visione del possibile baratro, precipizio. Terrore di quel “… grazie di tutto, Luigi, puoi andare, ti faremo sapere”.
Dimenticavo: e forse perfino il dover fare i conti con la non meno spettrale altrui, cosiddetta, faccia di bronzo, se non di peggio. Acclarato che il pubblico del quotidiano politico sa bene in che modo, tecnicamente, è avvenuta l’investitura iniziale di Di Maio. Perché mai esattamente lui lì a emergere dal casting della Casaleggio? Già, proprio le sue prerogative: dal taglio di capelli alla sfumatura alta, domande inutili ora che siamo quasi al mattino del giorno dopo. Restando in tema, il perché della scelta di una “faccia da lametta”, come direbbe Moravia volendo indicare una tipologia adatta alla narrazione popolare, faccina da foto affisse in una sala da barba, rigorosamente in bianco e nero, taglio di capelli che restituisca pulizia, affidabilità, senso del decoro. Quel decoro “medio” che nella banale percezione comune si reputa destinato a risultare rassicurante. Doroteo, potremmo dire, per estensione. La faccia e perfino la nuca di Di Maio come stigma di un governo.
Assodato tutto questo, e prendendo le distanze dalla schiuma post-satirica di contorno che, grazie ai meme dei social appare sempre più egemone nel fissare i termini e la cifra subculturale del dibattito, là dove il povero Di Maio è definito il “bibitaro”, e lo si immagina pronto a reincarnarsi nella foto dove mostra la sacca dei caffè “Borghetti”, lì a districarsi tra la folla delle gradinate, già, pronto a far ritorno allo stadio “San Paolo”, quasi come in un compimento del “Qohélet”, polvere eravamo e polvere nuovamente saremo... Bene, escludendo tutto questo cascame prosaico, resta tuttavia la sensazione che l’impasse del dibattito attuale con tutti i patemi del caso siano da inquadrare nella microstoria che mostra la caduta del nostro Luigi, dove appunto la risposta è semplicissima, senza nulla togliere alle mille obiezioni che si possano fare a ciò che dovrebbe, sotto il volto di Conte, altro miracolato, prendere forma a Palazzo Chigi. C’era una volta Di Maio. O forse: mi sa che assai presto Luigi non ci sarà più.

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