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venerdì 17 maggio 2019

Antonio Polito - «Il mio no al reddito di cittadinanza», ecco perché si rinuncia all’assegno

«Il mio no al reddito di cittadinanza», ecco perché si rinuncia all'assegno

di Antonio Polito
Non è né occupato né disoccupato. Né giovane né pensionato. Né povero né non povero. È un singolare prodotto della complessità sociale dell’indigenza, e di quel palcoscenico della vita che è Napoli, dove niente è come appare. Mi chiede di chiamarlo Marek, anche se ha 53 anni e una pelata che esclude ogni somiglianza fisica con il suo idolo (Hamsik) e la sua cresta. È venuto al Centro Servizi della Uil, zona Stazione, perché vuole rinunciare al reddito di cittadinanza. Ha in mano la busta appena aperta con dentro la tessera gialla ancora attaccata con l’adesivo. Alle Poste gli hanno detto che ci sono su 186,46 euro, quanto gli spetta fatti i calcoli del suo Isee, e ha deciso che il gioco non vale la candela. Sentiamo perché...
«Io sono un lavoratore occasionale per due aziende, trenta giorni lavorativi ciascuna, che non fattura cioè più di cinquemila euro all’anno. Ci sto attento, perché se supero quella cifra devo aprire una partita Iva e allora se ne vanno centinaia di euro ogni tre mesi. Vendo libri di medicina. Campagne promozionali. Sono venditore e vetrinista. Mi chiamano quando hanno bisogno». Non potrei giurare che fattura tutto il lavoro che fa. E neanche lui. È un classico esempio della trappola delle soglie. L’Italia è piena di gente che non vuole «crescere» per non emergere.
«Mi aspettavo 780 euro, così avevano detto. Almeno 500, perché essendo assegnatario di alloggio popolare non pago fitto. Me ne sono arrivate 186,46. Il mio problema è: ora mi chiedono di firmare il DID, dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro. Ma si parla di otto ore di lavori sociali alla settimana, più corsi di formazione. Se mi mettono per iscritto che le posso cumulare in un solo giorno, e che i corsi sono serali, allora posso continuare a lavorare e accetto l’assegno. Ma nessuno me lo sa dire. E se io invece devo fare due ore al giorno, più due di viaggio, quando lavoro più? Oppure mi scrivono su un pezzo di carta che io rinuncio a tutto per sei mesi, faccio i corsi, e poi dopo ho un lavoro fisso. Allora ci sto. Ma con un milione di domande, dove li trovano un milione di posti di lavoro. Chi ci crede?». 

Il caso di Marek non è unico. All’Inps di Napoli in parecchi stanno chiedendo quale sia la procedura per ritirarsi, spesso proprio perché la cifra ricevuta è troppo bassa rispetto alle attese. Ma nessuno lo sa. L’ipotesi-ritiro non era stata contemplata. E in effetti è strano che qualcuno rinunci anche a pochi euro. Si dice che alla fine questi gran rifiuti potrebbero essere anche più di centomila, ma tracce di una fuga di massa nel Caf di Napoli dove sono stato non ne ho viste.
La storia di Marek ci dice però due cose: la prima è che sono riusciti a ottenere la carta anche persone che sono di fatto sopra la soglia di povertà, e che dunque possono rinunciare a un contributo che considerano troppo modesto; la seconda è che il sistema di controlli messo in piedi è efficace come deterrente anti-imbrogli. Ma la terza cosa che ci dice la sua storia, la più importante, è che il reddito di cittadinanza è stato così tanto piegato verso l’avviamento a un ipotetico lavoro, per la paura del governo di apparire assistenzialista, che alla fine rischia di entrare il conflitto con il lavoro che c’è: duro, difficile, precario, sporco, talvolta nero, ma pur sempre lavoro. E la gente, comprensibilmente, il lavoro che c’è se lo tiene stretto.
«Ho un amico, lui non fa nulla, non ha voglia, vive a casa della fidanzata. Lui se li prenderà i 480 euro che gli hanno dato, non gli cambia niente. Conosco gente che invece ha bisogno ma perde i 280 dell’affitto perché non ha il contratto della casa registrato; e quale padrone di casa registra il contratto a Napoli? Poi conosco uno che fa i mercatini, affitta il posto del titolare della licenza. Quello sta bene, ma risulta senza reddito. Insomma, non funziona. Io avevo capito un’altra cosa».
Aggiungiamo che tutti i calcoli sono fatti sull’Isee degli anni passati e nel mondo della precarietà — ci dice Virginia Verrone, la funzionaria del centro Uil — le cose possono cambiare rapidamente, determinando ingiustizie in un senso e nell’altro, sia erogando troppo che troppo poco. E poi c’è il sospetto, cui l’Inps pare voglia rispondere con una campagna di gazebo esplicativi, che gli ultimi, i poverissimi, al Caf non ci arrivino neppure, e rimangano perciò fuori.
Intendiamoci: non è facile mirare con precisione alla povertà. Il reddito di cittadinanza è un primo tentativo, dunque l’esperienza di questi giorni andrà studiata. Innanzitutto per capire se la povertà è davvero come la immaginavamo----

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