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martedì 5 febbraio 2019

“DITE QUALCOSA”, di Marco Travaglio - 5 Febbraio 2019

(pressreader.com) –
 Manca un mese alle primarie congressuali che daranno al Pd, nel primo anniversario della più grave sconfitta della sua storia, un nuovo segretario. I sondaggi, per quel che valgono, lo stimano ancora sopra il 15%, cioè poco sotto il minimo storico toccato alle elezioni del 4 marzo 2018. E questa, per i dem, è una buona e una cattiva notizia. Buona perché possono contare (chissà ancora per quanto) su uno zoccolo duro di irriducibili di centrosinistra che non si rassegnano al bipolarismo 5Stelle-Lega. Cattiva perché, otto mesi dopo la sua nascita, il governo Conte continua a mantenere uno spropositato consenso intorno al 60%, a dispetto delle continue risse, cazzate e gaffe giallo-verdi. E la gente non è che non le veda o ne sia soddisfatta: ma l’allergia per “quelli di prima” è così inestinguibile da farle passare in second’ordine dinanzi alla terrificante prospettiva di un ritorno al passato. E nessuno degli aspiranti leader del Pd (per non parlare di B.) è ancora riuscito a scrollarsi di dosso le sembianze di “quelli di prima”. Perché né Zingaretti, né Martina, né Giachetti & Ascani (caso unico al mondo di doppia candidatura per una carica singola) hanno neppure tentato di abbozzare un’alternativa credibile e coerente alla maggioranza grillo-leghista. Un’alternativa che presupporrebbe un’analisi della sconfitta di un anno fa e di quelle precedenti, ininterrotte dal 2016...
Ancora l’altroieri, alla Convenzione seguita alle primarie nei circoli, né Zingaretti né Martina hanno speso una parola per prendere le distanze dalle politiche degli ultimi sette anni, clamorosamente bocciate dagli elettori. E Giachetti, il più applaudito, le ha addirittura esaltate come “riforme che resteranno nella storia”. La storia dei cimiteri, visto il loro effetto mortifero su quello che ancora nel 2014 era il maggior partito di centrosinistra d’Europa. Insomma, non ha sbagliato il Pd, ma gli elettori. Per il resto, le solite giaculatorie sullo “sforzo unitario” e sul “basta divisioni”, piuttosto bizzarre mentre ben tre candidati si contendono la segreteria e dovrebbero spiegare cosa li caratterizza e li differenzia. Altrimenti non si vede perché siano tre e non uno solo. Sull’Europa, tutti a scappellarsi a Calenda e al geniale manifesto “Siamo Europei”, che vieta rigorosamente l’accesso a chiunque puzzi di sinistra e sventola uno dei brand più screditati sul mercato (infatti la lista +Europa della Bonino, un anno fa, non superò nemmeno il 3%). Sui migranti, i soliti pateravegloria sull’accoglienza, come se la linea dura l’avesse inventata Salvini, non Gentiloni e Minniti.
 
Sull’esorbitante e inquietante consenso a Salvini, nessun’analisi e nessuna idea per contrastarlo, se non l’astuta mossa di Martina di una mozione di sfiducia in Parlamento per regalargli un altro po’ di vittimismo. Senza spiegare come mai il nuovo Duce smette di esserlo e diventa un ottimo alleato con cui marciare in piazza gomito a gomito in difesa del Tav, delle trivelle e del Partito del Pil, cioè della Confindustria (tutti valori tipici della sinistra). Sul reddito di cittadinanza, la più vasta misura contro la povertà mai adottata in Italia, nemmeno un monosillabo, a parte gli scherni renzian-boschiani. “Mai con i 5Stelle”, giura Martina, mentre Giachetti, dal canto suo, tuona: “Mai con i 5Stelle”. Invece Zingaretti, per differenziarsi, ribatte: “Mai con i 5Stelle”. Quel giuramento, oltre a rispondere a una domanda che al momento nessuno ha posto, è diventato un mantra. Una specie di test d’integrità e purezza da superare per essere ammessi alla segreteria del Pd, cioè del partito che dal 2011 al 2018 è riuscito a governare una volta con Monti e Fornero, due volte con B., quattro volte con Alfano e Verdini. E un anno fa, pur di non sedersi al tavolo con Di Maio malgrado gli appelli di Mattarella e Fico, mandò Salvini al governo. Ora un centrosinistra che si rispetti dovrebbe finalmente arrendersi al principio di realtà.
 
Problema: posto che si vota col proporzionale (grazie al Rosatellum, imposto dal Pd e votato anche da FI e Lega) e che il Pd naviga poco sopra il 15%, come intendono lorsignori arrivare al 50% più uno dei seggi in Parlamento (pari a oltre il 40% dei voti nelle urne)? Soluzione: si tenta di recuperare una parte dei voti perduti; e si cerca un partner che abbia almeno il 25%. Ora, lo sappiamo: il destino è cinico e baro e il mondo è brutto e ingrato. Ma al momento di partner sopra il 25% ne esistono solo due: i 5Stelle e la Lega. Bisogna sceglierne uno, sapendo che la Lega non ha alcuna intenzione (né alcun bisogno) di allearsi col Pd. Al momento neppure i 5Stelle, visto che al governo ci sono già e visto come furono trattati un anno fa. Ma poniamo il caso che, dopo le elezioni europee, l’esile filo che tiene uniti i giallo-verdi si spezzi e il governo Conte cada. A quel punto il Pd che fa? Appoggia un governissimo istituzionale con Lega, FI e frattaglie varie (in cui il M5S non entrerebbe mai)? O entra in un governo con i 5Stelle? Oppure continua la politica renziana dei pop corn e del no a tutti, rendendo inevitabili le elezioni anticipate, cioè la vittoria del centrodestra, con Salvini premier e B. ministro della Giustizia? Altre soluzioni, in natura, non ne esistono.
 
Se il congresso del Pd ha un senso, è anche e soprattutto per rispondere a questa domanda. Cioè, nell’ordine: darsi una nuova identità; incunearsi fra le contraddizioni dei giallo-verdi; farle esplodere al più presto; indicare un’alternativa praticabile, sui numeri e sui programmi, possibilmente in questo Parlamento perché già sappiamo come sarà il prossimo; e poi provare a realizzarla. Riusciranno i nostri eroi nel prossimo mese a dire qualcosa di sinistra, o almeno a dire qualcosa?
 
“DITE QUALCOSA”, di Marco Travaglio sul Il Fatto Quotidiano del 5 Febbraio 2019

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