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lunedì 11 febbraio 2019

Calabresi-Repubblica, il giornalismo del cane che non mangia mai cane



(Pietrangelo Buttafuoco) – 
Improvvisamente è accaduto come con l’invenzione del telaio: gli operai non sono serviti più e così – un’era fa, anche se sono passati pochi anni – è accaduto con l’informazione. I giornalisti, col web, sono superflui e anche quella loro signorile capacità professionale è stata ribaltata al grado zero: chi si guardò, si salvò. Salvato, per fare un esempio, è un Corrado Augias che nella sua squisita nicchia culturale prende molto-mila-assai e fischia euro l’anno dalla Rai. Lavora beato con un bel conquibus anche per Repubblica, non ci si salva mai per sorteggio – per noblesse – e sommersi, invece, sono tantissimi altri. A cominciare dai precari squillanti di firma. Ce ne sono perfino nei giornaloni, prosciugati nel reddito, tutti sommersi nel mare grande di un mestiere senza più parte e nessuna arte se ai più giovani infine – malgrado la prima pagina tuoni contro il mercato nero e lo sfruttamento – prendano 20 euro lordi, al più, a pezzo. E magari – il contrappasso è in agguato – sono pezzi scritti per difendere lo stipendio di Augias...

Si salva chi già ben alloggia. Chi non ha padrinati, al contrario, è sommerso. È pur sempre il mestiere di Bel Amì, quello del giornalista, ci si salva in virtù dell’altra rete – quella delle relazioni – e se ne avrà una controprova quando Mario Calabresi, il direttore uscente del giornale fondato da Eugenio Scalfari, pur dopo il suo cocente inciampo, si ritroverà accolto, e non ce ne sarà da meravigliarsi, nella Rai dei populisti, a Mediaset o accasato in via Solferino, va da sé.
Chi si salvò, si salva per sempre. Ed è giornalismo. Durante un’intervista di Cesare Lanza a Urbano Cairo nel via vai di un caffè, a Milano, a un certo punto sbuca Giancarlo Aneri. Non era ancora finita la stagione di Calabresi a Repubblica e Aneri, il patron del più inarrivabile dei premi, “È giornalismo”, ha quasi un urto profetico.
Aneruccio schiva la bastonata dell’inviato de La Verità (“manco per sbaglio il premio va a un giornalista non dico di destra, ma di…”) si avvinghia all’editore del Corriere – assai silente – e gli intima “Dovresti assumere Calabresi al Corriere, sarebbe un magnifico editorialista!” e siccome due più due fa quattro, lo schema è già descritto: cane non mangia cane, prete non mangia prete…
Tutti salvati, madama la marchesa. Ed è sempre troppo in alto l’uva per i sommersi la cui consolazione, nel fallimento, è che l’uva loro negata sia agra, maledettamente agra. La Vita Agra, per dirla con Luciano Bianciardi. E improvvisamente è venuto questo tema del giornalismo perché è stato più facile togliere di mezzo politicamente i Renzi e i Berlusconi che cambiare musica là dove il vapore impartisce alfabeto unico dei giornaloni, dei Fabio Fazio e dell’industria culturale unica del pensiero unico e sempre uno.
“Perché i giornali stanno soffrendo” ha scritto Domenico De Masi giovedì scorso per il nostro giornale. I consumi di cultura sono crollati e c’è – sottolineava giustamente De Masi, in punto di analisi – “c’è un problema di testate che si somigliano tutte”.
Parole sante. Cui va ad aggiungersi l’equivoco sulla fatica intellettuale, quel leggere e scrivere – e creare – spacciato per un passatempo il cui tempo consumato è di valore zero.
Si assomigliano tutti i salvati, e così anche i sommersi. Uguali tutti alla volpe.
da Il Fatto Quotidiano dell’11 febbraio 2019

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