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venerdì 7 dicembre 2018

“Aridàtece Jim”, di Marco Travaglio



(pressreader.com) – 
Finirà che rimpiangeremo Jim Messina, il leggendario guru americano e globetrotter della comunicazione che, avendo già rovinato Obama, Rajoy e Cameron, fu ingaggiato da Renzi alla modica cifra di 400 mila euro all’anno perché non c’è il tre senza il quattro. Infatti, anche grazie ai suoi preziosi consigli, il Pd perse rovinosamente tutte le Amministrative, poi il referendum costituzionale, infine le Politiche. Dopodiché lo Statista di Rignano capì di riuscire tranquillamente a sparare cazzate da solo, e lo congedò. Ma oggi, visto com’è ridotto, potrebbe aver bisogno persino di lui: financo Jim gli farebbe notare che non è una proprio grande idea fondare un partito macroniano quando Macron non lo vota più neppure Brigitte. E c’è il rischio che, quando i suoi seguaci italiani saranno pronti a partire, lo spirito guida sia già fuggito a Varennes travestito da Luigi XVI. Se poi fosse vero che anche Carlo Calenda è pronto a uscire dal partito a cui si era iscritto inspiegabilmente sei mesi fa, pure lui per seguire le orme del genio transalpino, avremmo ben due partiti macroniani senza più Macron. Degno epigono della sinistra più ritardataria dell’orbe terracqueo. Cioè la nostra: blairiana quando gli inglesi a Blair tiravano le uova e le scarpe; clintoniana nel senso di Bill quando questi s’era già estinto e nel senso di Hillary quando le mancava giusto un po’ di sfiga per perdere persino contro Trump....

Negli ultimi anni il Pd ha tentato sgangheratamente di scimmiottare i 5Stelle. Prima con Renzi, che alle primarie si presentava come la bella copia di Grillo, salvo poi diventare la brutta copia di B.. Poi con Gentiloni, che abbozzò un abortino di reddito di cittadinanza (Rei, reddito di inclusione), talmente gracilino che – come ha detto Nanni Moretti – non l’ha notato nessuno. Intanto coglievano ogni occasione, vera e soprattutto falsa, per dire che i 5Stelle rubano come gli altri. Che, se fosse vero, sarebbe una ben magra consolazione. Ma purtroppo è falso. Diversi amministratori M5S sono finiti sotto inchiesta, e alcuni sotto processo, ma mai per ruberie di soldi pubblici. E, in caso di condotte moralmente indegne, sono stati comunque cacciati. Tipo i parlamentari che si avvalsero della facoltà di non rispondere ai pm (un diritto processuale, ritenuto però incompatibile col dovere di trasparenza), sulle firme false a Palermo. O il capo-gabinetto della Appendino che fece levare una multa a un amico. O la sindaca di Quarto (Napoli) che non aveva denunciato un’estorsione da un consigliere comunale. O il sindaco di Bagheria, nei guai per abusi edilizi e appalti pilotati.
Memorabile la campagna, alla vigilia delle elezioni, montata dal Pd sui servizi delle Iene che smascheravano una dozzina di parlamentari M5S morosi sul versamento – imposto dal codice interno – di parte dello stipendio al fondo per il microcredito delle piccole e medie imprese. Furono dipinti come ladri per aver fatto ciò che fanno tutti i parlamentari dal 1948, con l’unico effetto di far scoprire agli italiani ciò che la grande stampa gli aveva sempre nascosto: e cioè che i 5Stelle rinunciano a una parte del proprio stipendio per finanziare le piccole imprese; e chi viene beccato a tenersi tutto viene espulso su due piedi. Un lancio pubblicitario strepitoso (e tutto gratis). Notevole anche la polemica contro Di Maio, “primo ministro del Lavoro che non ha mai lavorato”, a parte vendere bibite allo stadio San Paolo di Napoli: il che, detto da un partito che si dice di sinistra, era un autogol da Guinness, visto che una sinistra che si rispetti dovrebbe fare qualcosa per i giovani del Sud che si arrabattano con piccoli lavoretti perché non trovano un’occupazione decente. Poi è partita, sempre dalle Iene, la sit-com di Casa Di Maio, col padre Antonio che faceva lavorare in nero tre operai e, si insinuava, forse anche il figlio Luigi, quando non era occupato a vendere bibite al San Paolo o a servire in tavola (senza contratto) in una pizzeria del suo paese. I migliori segugi di tv e giornaloni a caccia di sardanapaleschi abusi – dalla “piscina” che poi si rivelava una vasca montabile o gonfiabile, alla “villa col patio” che poi si scopriva essere una squallida tettoia con dietro due bombole a gas – assistiti via cielo da appositi droni e via terra da plotoni di vigili dell’inflessibile amministrazione comunale di Marignanella (che mai prima aveva notato nulla di abusivo, né a casa Di Maio né nelle proprietà adiacenti). E intanto la gente semplice si domandava: ma non ci avevano raccontato che Di Maio non faceva una mazza dalla mattina alla sera? Invece, guarda guarda, vendeva bibite allo stadio, serviva pizze, lavorava col padre e chissà cos’altro: più che fannullone, stakanovista.
Ieri i geniali comunicatori del Pd hanno lanciato l’ultimo boomerang contro la norma del M5S (prevista dal contratto di governo, ma invisa alla Lega) che incoraggia l’acquisto di auto ecologiche e penalizza quello di veicoli inquinanti. Una battaglia che accomuna tutte le forze di sinistra e ambientaliste del mondo: infatti il Pd non c’entra. In perfetta sintonia con FI e Lega, il renziano Michele Anzaldi bolla i 5Stelle come “i killer dell’auto italiana e del made in Italy”, perché – testuale – “l’unico Paese che ancora non produce auto ibride è l’Italia” e questa è “concorrenza sleale” perché “ben 24 colossi stranieri già producono auto ibride”. Volete mettere il privilegio di noi italiani di morire di smog più degli altri per difendere il made in Italy della Fca (con sedi fra Detroit, Londra e l’Olanda) che, bontà sua, non ha mai partorito un’auto ecologica? Un bel cancro made in Italy, che diamine. E poi tutti a chiedersi perché in Italia vincono i 5Stelle e in Germania i Verdi. Jim, ti prego, torna al Nazareno: spiegagli qualcosa almeno tu.
“Aridàtece Jim”, di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 7 dicembre 2018

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