Articolo di Marco Trombino per Sakeritalia
Il 20 Ottobre di quest’anno il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha dichiarato di voler ritirare il proprio paese dal trattato INF del 1987 per la riduzione degli armamenti atomici. Senza troppi preamboli storici, basti ricordare che il trattato INF produsse l’eliminazione fisica di 846 missili americani e 1846 sovietici precedentemente dispiegati sul territorio del continente europeo. Gli USA sostengono che la Russia non stia rispettando il trattato, avendo dispiegato missili 9M729 con gittata superiore a quella ammessa dal trattato (s’intende, per missili a medio raggio, quelli avente una gittata tra 500 e 5500 Km), mentre la Federazione Russa nega decisamente quest’affermazione sostenendo che le caratteristiche tecniche degli 9M729 rispettino pienamente le gittate previste dagli accordi.
Indipendentemente da quale dei due contendenti abbia ragione su questo specifico punto, è interessante approfondire come i media abbiano trattato l’argomento. Se riprenderete in mano i giornali del 20 Ottobre, vedrete che la notizia del ritiro unilaterale americano dall’INF è stata trattata come una qualsiasi notizia di politica estera, che gli articoli principali hanno continuato ad essere quelli di politica interna o di cronaca, e che quasi nessun commento relativo all’INF abbia sottolineato i gravissimi rischi di una sfrenata corsa agli armamenti sul suolo europeo, che oramai eguaglia o sorpassa per gravità quella del secolo scorso. In nessun media italiano si parla mai di Seconda Guerra Fredda, mentre questa è ormai la realtà geopolitica e militare di fatto che stiamo vivendo...
Un silenzio del genere non è affatto casuale, specialmente se ricordiamo come le stesse notizie venivano trattate nella seconda metà del XX secolo. All’epoca era comune leggere sui giornali o ascoltare in televisione informazioni su un possibile conflitto termonucleare, su quelli che sarebbero stati i probabili effetti sulla civiltà e sulla sopravvivenza del genere umano, nonché le conseguenze che avrebbe avuto sulla vita nel nostro pianeta. Durante gli anni ’70 e ’80 anche gli adolescenti avevano chiari concetti quali la differenza tra bomba atomica, bomba termonucleare e bomba al neutrone, avevano la nozione di “inverno atomico” o di “mutua distruzione assicurata”, e non perché gli adolescenti di allora fossero particolarmente geniali rispetto a quelli di oggi, ma semplicemente perché erano più informati. Di “guerra termonucleare” e “inverno atomico” se ne parlava sui giornali, alla radio, in TV, i professori a scuola vi dedicavano intere lezioni e si potevano seguire documentari interamente dedicati al tema. Oggi, a fronte dello stesso rischio, nessuno parla più di argomenti del genere.
O meglio, non nei paesi occidentali. In Russia, invece, il pubblico contemporaneo ha ben chiara la situazione, e importanti trasmissioni televisive sono dedicate a questi temi e al commento della situazione geopolitica internazionale. Per citarne alcuni, su Pervij Kanal sono state trasmesse rubriche interamente dedicate quali “Politika”, “Vremja Pokhazhet” e “Tolstoj Voskresenje”, alcune delle quali ancora in onda. Quindi il pubblico russo è perfettamente cosciente della gravità della situazione politico-militare che è venuta a crearsi in questi ultimi anni, dall’Ucraina alla Siria, con il rischio correlato di incidenti armati diretti NATO-Russia che potrebbero innescare una guerra atomica.
Nei media nostrani, invece, questi argomenti non vengono mai affrontati, se non distrattamente, e il motivo di tale silenzio disinformativo ha una sua ragione ben precisa. All’epoca in cui esisteva l’URSS, i paesi NATO (e segnatamente gli USA) avevano paura di una guerra termonucleare. Oggi no. Cos’è cambiato da allora?
Oltre che il notevole stravolgimento geopolitico che tutti noi conosciamo, verificatosi all’inizio degli anni ’90 – scomparsa del Patto di Varsavia e dissolvimento dell’URSS – tale per cui la NATO si trova ad affrontare oggi un nemico ben più debole di allora, ciò che ha impresso un cambiamento psicologico nella percezione dei rischi di un conflitto atomico è stata l’evoluzione delle tecnologie militari, in particolare il perfezionamento dei sistemi antimissile.
Armi antimissile erano presenti già negli anni ’80 ma si trattava allora di tecnologie pionieristiche, sulla cui efficacia i primi a nutrire dubbi erano proprio coloro che le producevano. In trent’anni chiaramente queste armi hanno subito un significativo balzo in avanti e la loro precisione è aumentata, anche se probabilmente gli USA non riuscirebbero a bloccare tutti i vettori ICBM partiti dal territorio russo o dai sottomarini in caso di una ritorsione nucleare. Gli USA hanno in cantiere l’implementazione di un sistema antimissile a laser (“Airborne Laser”, che potrebbero essere montati sia su aerei che su droni) e possiedono già attivi sistemi più tradizionali di missili antimissile come per esempio il SM-3 Block IIA.
Ad ogni modo, se negli anni ’60 a fronte di un ipotetico attacco atomico vigeva la regola di “ogni colpo, un centro” oggi non è così per entrambe le superpotenze: una parte dei missili verrebbe senza dubbio fermata dai sistemi antimissile. Ed è proprio questa consapevolezza che ha generato il cambiamento psicologico di cui sopra.
In ambienti politici e militari americani si sta quindi facendo strada l’idea che una guerra termonucleare si possa vincere subendo perdite accettabili. Per la verità, idee del genere circolavano anche nel XX secolo su entrambi gli schieramenti, ma all’epoca venivano facilmente confutate da qualsiasi seria simulazione di quello che sarebbe accaduto in caso di conflitto: proprio a causa del principio “ogni colpo, un centro”, nessuno dei due contendenti avrebbe subito perdite minime ed entrambi le nazioni sarebbero scomparse insieme al resto dell’umanità. Le nuove tecnologie ipoteticamente in grado di arrestare parzialmente o totalmente il lancio missilistico di centinaia di ICBM stanno purtroppo rinverdendo l’illusione che da un conflitto atomico se ne possa uscire senza un collasso completo. La enorme lontananza geografica degli USA dai siti nucleari dell’avversario è infine il fattore che genera il miraggio americano del colpire senza essere colpiti.
Ed ecco il motivo per cui la stampa tende a minimizzare le attuali notizie rispetto alla minaccia di un conflitto atomico. Siccome l’idea di una guerra del genere viene sempre più concretamente presa in considerazione, la strategia propagandistica di base è quella di non informare l’opinione pubblica occidentale per metterla di fronte al fatto compiuto. La paura generalizzata di un olocausto atomico potrebbe infatti favorire l’emergere, specie in Europa, di forze politiche contrarie alla NATO e favorevoli ad un posizionamento neutrale in politica estera, se non addirittura allineato alla Federazione Russa, e in un momento di espansione della NATO nello scacchiere balcanico la defezione di uno o più dei membri storici dell’alleanza potrebbe provocare ripercussioni culturali e strategico-militari non sostenibili dagli USA anche nel breve periodo. Ed ecco che nascondere i gravissimi rischi del dispiegamento incontrollato di testate nucleari sul nostro continente diventa parte integrante della tattica per accerchiare militarmente la Russia e mettersi in “posizione di tiro” senza trovarsi fattori di disturbo alle spalle. Tale manovra disinformativa viene considerata di particolare rilievo strategico fra i cittadini dei paesi europei, che in caso di conflitto non sarebbero affatto protetti da un efficace sistema antimissile, data la loro vicinanza geografica alla Russia, e rappresenterebbero pertanto la carne da cannone che gli USA non esiterebbero a sacrificare in caso di ostilità nucleari con l’avversario.
Se la tecnica della disinformazione del pubblico occidentale, tramite il ridimensionamento mediatico dei rischi di guerra, per il momento pare avere ottenuto il pieno successo, giacché l’opinione pubblica e le classi politiche nostrane – ad eccezione di segmenti del tutto minoritari – paiono ignorare del tutto la grave escalation pre-bellica che oppone la Russia alla NATO, un po’ meno realistica pare l’idea del poter sconfiggere la Russia senza subire perdite. A questo scopo le forze armate russe hanno recentemente sviluppato missili ipersonici, quali i Kinzhal e gli Avangard, proprio nel tentativo di far comprendere agli avversari che il principio del “ogni colpo, un centro” è ancora valido, almeno quanto basta per garantire la Mutua Distruzione Assicurata di cui eravamo tutti coscienti una quarantina d’anni fa.
Resta da capire se la consapevolezza di non essere affatto invulnerabili sia condivisa anche da nell’ambito politico/militare a stelle e strisce. Tenuto presente che il 3 Ottobre la signora Kay Bailey Hutchison, ambasciatrice USA presso la NATO, ha affermato in merito agli 9M729 russi che le forze armate americane sono pronte ad “eliminare” [“take out” nella frase originale] i missili russi, l’impressione è che dall’altra parte dell’oceano stiano affrontando la situazione con una sicumera sproporzionata rispetto alla consistenza dell’arsenale atomico avversario.
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Articolo di Marco Trombino per Sakeritalia
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