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martedì 25 settembre 2018

Russia, le mosse di Putin per prendersi l’Est del mondo: il “pivot to Asia” di Obama ora diventa un obiettivo di Mosca


Russia, le mosse di Putin per prendersi l’Est del mondo: il “pivot to Asia” di Obama ora diventa un obiettivo di Mosca

A Vladivostok Mosca riunisce 60 Paesi con numeri record, come i 175 accordi commerciali da 42 miliardi. Così lo "Zar" - tra lezioni di plumcake a Xi e prove di pace con Tokyo - disegna nuove (possibili) mappe.
Go east: la Russia sposta lo sguardo verso Est. Scavalca le sanzioni di Unione Europea e Stati Uniti d’America, ignora il caso Skripal, tiene lontana temporaneamente la guerra in Siria. E’ presto per dire se la Federazione russa stia costruendo un diverso (o migliore) profilo internazionale. Di sicuro la costruzione di una Russia un poco più asiatica, e un poco meno europea, prende lentamente forma. Un punto di svolta, una decina di giorni fa, è
Putin con il presidente cinese Xi Jinping
stato Vladivostok, il porto principale della Russia sull’Oceano Pacifico. Il presidente Vladimir Putin ha accolto qui i grandi del Nord-Est asiatico in quella che è la città più rappresentativa della svolta ad oriente di Mosca, sin dai tempi in cui Gorbachev invitava l’Urss ad allargare i propri rapporti con le economie dell’Asia. Prima conosciuta principalmente per essere la sede della temibile flotta sovietica del Pacifico, ora come nel 1986, Vladivostok cerca di fuggire dal suo passato per agganciarsi al traino delle economie regionali. Al tempo stesso una valvola di sfogo e un nuovo combustibile per le ambizioni geopolitiche del Cremlino. E così di sicuro nei tre giorni dell’Eastern Economic Forum per la Russia i vantaggi sono stati innanzitutto commerciali: un record di 175 accordi siglati per un valore totale di 42 miliardi di dollari. Industrie minerarie, fertilizzanti, settore agricolo e l’immancabile industria degli idrocarburi sono i destinatari dell’ingente somma di cui i finanziatori rimangono ad ora sconosciuti....


Per il quarto anno consecutivo l’Eastern Economic Forum ha riunito oltre 6mila partecipanti da 60 Paesi differentiDelegazioni diplomatiche ma anche rappresentanti delle grandi compagnie come MitsuiMazdaLotteCnpc e Daewoo, desiderose di entrare in contatto con una realtà assai peculiare e dal profilo del tutto unico. I nove distretti federali orientali dellla Russia hanno infatti una superficie di due volte circa quella dell’intera India ma ospitano
Igor Sechin, presidente della Rosneft
soltanto 6,2 milioni di abitanti, poco più della popolazione che risiede nell’area metropolitana di Berlino. Questa regione, dalle sconfinate lande che vanno dagli oceani artici alle steppe mongole, offre gigantesche potenzialità: legname, carbonerisorse acquifere e minerali in grande abbondanza, e giacimenti di idrocarburi – che nel resto del Paese sono ormai a una fase matura di sviluppo – in una fase precoce dell’estrazione o addirittura embrionale, disponibili quindi a rifornir il miglior offerente.
Il 12 settembre si trovavano contemporaneamente a Vladivostok il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente mongolo Khaltmaagiin Battluga e il primo ministro della Corea del Sud Lee Nak-yeon; ospitati, come di consueto, dal padrone di casa Vladimir Putin. Unico assente d’eccezione, invitato direttamente dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov ma non pervenuto, il leader nordcoreano Kim Jong-Un.
La convivialità rimane una potente arma comunicativa e diplomatica. Ecco allora Xi Jinping prendere lezioni dal presidente russo sulla preparazione dei bliny (simile ai pancake), a sua volta coadiuvato da due esperti chef. Nelle loro mani la responsabilità di impiattare allegoricamente un’alleanza fra Russia e Cina che farebbe gola a molti commensali, riottosi all’idea di sedersi allo stesso tavolo degli Stati Uniti, non solo in Asia. Il pivot to Asia, annunciato da Obama durante una visita in Giappone nel 2009, ovvero un impegno costante e crescente nella regione ad occupare l’agenda degli Stati Uniti sembra ormai un lontano incubo e così la Russia si inserisce in un quadro che, grazie alla presidenza di Donald Trump, ha acquisito dinamicità e addirittura consentito a Mosca, con risultati alterni, di prendere qualche iniziativa geopolitica.
Come l’inatteso invito a Shinzo Abe. La proposta, di per sé dirompente, di concludere entro la fine dell’anno un Trattato di Pace “senza alcuna precondizione” fra Mosca e Tokyo. Infatti, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, si dovette attendere sino al 1956 per la firma di una dichiarazione congiunta che interrompesse lo stato di guerra fra i due Paesi. A impedire invece la pace, allora come oggi, rimane lo Stato delle 4 isole Curili (Territori del Nord, nella denominazione giapponese), nelle vicinanze dell’isola di Hokkaido e annesse dall’Urss negli ultimi giorni del conflitto. “La nostra posizione, che vuole la questione dei Territori del Nord risolta prima della firma di qualsiasi trattato, rimane invariata” ha risposto seccamente il capo di gabinetto giapponese Yoshihide Suga, poche ore dopo la proposta di Putin. Diplomazia-lampo, la chiamano.
Putin tra Shinzo Abe (Giappone) e Xi (Cina)

Poi c’è la politica interna. A Vladivostok, a circa 7 ore di fuso orario dal Palazzo d’Inverno, il crollo dell’Unione Sovietica è stato se possibile ancor più sofferto rispetto al fulcro della rivoluzione del 1917. Nell’Est della Federazione la criminalità organizzata, durante gli anni della presidenza Yeltsin, ha avuto libertà di agire pressoché indisturbata, grazie ad una malsana connivenza della classe politica locale. La mancanza di lavoro e di commesse dalla Capitale verso l’apparato industriale hanno contribuito, nel periodo post-sovietico, allo spopolamento di tutta la regione, con alcuni picchi, registratisi in alcune province, arrivati sino al 70 per cento degli abitanti in meno rispetto il 1989. Tuttora, lo standard di vita dell’Oriente russo rimane sotto molti punti di vista di gran lunga inferiore a quello della Russia europea.
Non a caso, dall’est della Federazione, nell’ultima tornata elettorale del 9 settembre è arrivato un segnale piuttosto chiaro. Il partito di Russia Unita, che esprime il primo ministro Medvedev e che nei fatti deriva dall’ensemble politico che ha portato alla prima presidenza di Putin, non è riuscito a eleggere al primo turno 4 governatori e in due province, pur non ottenendo soltanto una maggioranza relativa, i candidati di comunisti e liberal-democratici (ovvero un partito ultra-nazionalista e di estrema destra) hanno scalzato gli avversari del partito di governo. La paura che le regioni orientali della Russia sfuggano al controllo centrale aleggia sin dai tempi dello zar. In quest’ottica va vista la costante attenzione di Mosca, espressa soprattutto nell’ultimo decennio, nell’attrarre qui gli investimenti dei vicini asiatici, con l’obiettivo di svilupparne l’economia e fermare il costante esodo dall’Estremo Oriente.

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