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venerdì 31 agosto 2018

Fulvio Abbate: “Veltroni ti prego: se non hai niente da dire, taci”



Dalle colonne di Repubblica l’ex-segretario nonché fondatore del Pd, ha ribadito le sue (perdenti) idee. Per fortuna – a parte Scalfari – la vocazione maggioritaria e la sua totale assenza di autocritica, ormai, non le sopporta più nessuno.

(Fulvio Abbate – linkiesta.it) – 
È di un amico, l’epitaffio per il ritorno di Walter Veltroni: “Potrà mai il virus presentarsi come fosse la diagnosi?”. Punto. Si potrebbe molto argomentare, lo so, cominciando dal disastroso destino nel tempo dell’oggetto politico sinonimo iniziale di quest’ultimo, il Partito democratico, ma forse è proprio nell’icasticità immediata, da brutale cabaret, la forza dell’analisi-polaroid che ho appena riportata.
Il resto è presto detto, un improponibile politico, lo stesso che ha inanellato alcuni fallimenti conclamati, non pago di avere, anni addietro, confessato a capo chino che avrebbe raggiunto l’Africa, luogo di espiazione catartica e magari perfino di reportage letterario, si è nuovamente manifestato in forma di possibile leader-replay nei giorni scorsi dalle colonne di “Repubblica”, con un’articolo-manifesto che riassume, meglio, ripropone per intero la schiuma nel tempo da costui categorizzata sotto la voce di “vocazione maggioritaria”, l’abbandono degli ormeggi sociali storici della Sinistra per fare rotta verso l’atollo refrigerato dei ceti medio-alti riflessivi, producendo così un pensiero ancor più medio, medio davvero in tutto, un pensiero da criceti medi, appunto. Ovviamente, si fa uso dell’ironia per non cedere alla rabbia, all’invettiva, talvolta perfino all’insulto che risponde alla protervia....

Tra le risposte prontamente da Veltroni ricevute è il caso di annoverare quella argomentata dello scrittore romano Christian Raimo: “L’assoluta, roboante, psichiatrica mancanza di autocritica. Non fa nemmeno per un secondo cenno alle responsabilità politiche gigantesche, storiche, di aver creato un partito senza anima, succube di un’ideologia mortale come il blairismo, che ha portato come una profezia facilissima da avverarsi a questo disastro: non parla di privatizzazioni, di leggi sul lavoro, dell’assenza di democrazia interna, del maschilismo, del disastro urbanistico di Roma, del sistema di Mafia Capitale che azzerato la sua credibilità di amministratore”.
In compenso, posto che il nostro è sempre ben accompagnato, Eugenio Scalfari ne ha osannato in modo recidivante, se non complice, le parole, gli intenti, addirittura la generosità, così per l’ex direttore de l’Unità, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, un tris di fallimenti, quasi l’articolo-manifesto di V. lo avessero, in molta misura e sostanza, concertato insieme, per il bene stesso della sinistra e magari del Paese, ma su questo sarebbe il caso di far chiarezza, accennando fin da subito che il Fondatore è tra coloro che da tempo tessono il proposito di portare proprio Veltroni al Quirinale, riconoscendo a quest’ultimo un profilo istituzionale alto, profondo, inequivocabile, salvifico, un nuovo Crispi. Insomma, un semplice scambio di complimenti tra il (presunto) filosofo Eugenio e il (tragico) romanziere e regista di documentari Walter, schiuma da basso impero clientelare romano, sia pure dal volto umano, posto che nessuno ha dimenticato la processione di veri “amici” all’Auditorium di Roma, tutti lì a elogiarne l’ultima opera, quasi avessero davanti un nuovo Rossellini. Ovviamente narriamo della medesima città che, fino a qualche anno prima, spendeva quasi eguali parole di plauso per un suo collaboratore travolto infine dal caso “Mafia Capitale”. Si sa però che Roma è Roma, non conosce ritegno, e su questo al momento sorvoliamo per amore di brevità.
Tornando però ai fatti, confesso di avere temuto da subito che le parole di W. facessero breccia nel candore gregario di molti elettori progressisti, un’eventualità presto scongiurata dalla risposta ricevuta dall’antropologo Federico Bonadonna, già collaboratore della giunta Veltroni al Campidoglio: “I politici di ‘sinistra’ che per 25 anni con il partito liquido hanno distrutto l’eredità organizzativa del Pci sono oggi in prima linea per la ricostruzione di un partito di massa. Quelli che hanno aperto i campi di concentramento e tortura in Libia oggi ci spiegano la necessità dell’accoglienza e dell’integrazione migranti. Quelli che ci hanno spiegato che dovevamo comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò e abbandonare il ‘vecchio’ antifascismo oggi ci chiamano in piazza contro quello che chiamano nuovo fascismo. Quelli che hanno occupato il campo della sinistra realizzando politiche di destra, oggi parlano dell’importanza dello stato sociale dopo averlo sistematicamente contribuito a smantellarlo. Il loro unico obiettivo è riciclarsi perché sono uomini per tutte le stagioni interessati solo a un altro giro di giostra, a occupare posti, ad avvelenare la società”.
Neppure un anno fa, pensandoci bene, ero lì a riflettere sul probabile ritorno proprio di Veltroni sul mucchietto delle ceneri di Renzi e del renzismo, quasi l’uomo, sempre agli occhi degli ingenui e insieme interessati fan, e ancor di più di coloro che hanno ricevuto dallo stesso ampie rendite di posizione, fosse concepito come il salvavita di un centrosinistra che sempre si è sottratto – intendiamoci, per non dare adito a cattivi pensieri, per il bene della “ditta” – al dibattito e perfino a un congresso sulle ragioni della sconfitta, l’ennesima già preventivata, certa.
E qui c’è ancora da ricordare Veltroni, giovane esporatore Tobia di una Fgci perbenista, figli complessati sotto tutela dei grandi del partito, gli stessi che appena adulti, mettendo da parte Gramsci e perfino Togliatti, per costruire il consenso si affideranno semmai ai Jovanotti, ai Baricco, alle figurine Panini. Armi inutilizzabili con l’arrivo dell’orda fascio-leghista e grillina che si affida a un Fabrizio Bracconeri per argomentare, altro che Francesca Archibugi.
Ora che ci penso, però, già la notte del crash renziano, davanti alla cortina fumogena destinata a garantire la fuga dei responsabili proprio del tonfo del Pd di segno veltroniano, non una parola da parte del diretto interessato giungeva, semmai un implicito muto invito a tacere per rispetto e pudore, non una riflessione sulle “ragioni della sconfitta“, e questo perché “non bisogna prestare il fianco” al pessimismo… Poi, ripeto, c’è la promessa dell’Africa, cui per pudore non ci soffermiamo.
Riepilogando ancora, guardando al mattino del giorno dopo il tracollo, davanti all’ammazzacaffè del renzismo ero certo che qualcuno, dimenticando i pregressi, avrebbe comunque detto: dai, torniamo a Veltroni, è lui il nostro uomo, il nostro ferro di cavallo, la nostra unica ancora di salvezza da spendere in nome di un nuovo doroteismo esteso anche a sinistra. Ma ero altrettanto convinto che questi, davanti ai messi imploranti giunti lì per convincerlo, avrebbe fatto la parte del ritroso, di colui che si fa pregare per poi, come nella barzelletta di Hitler richiamato a gran voce dall’inferno, concedere: “Però questa volta cattivi, eh?”. E un istante dopo rieccogli intorno i Paolo Virzì e le Francesca Archibugi, i cui film talvolta, come nei fumetti del Mago Wiz, sembrano assomigliare all’omino che urla sotto il castello del Re e di Sir Brandolph: “È mezzanotte e tutto va bene!” E ovviamente l’amico fidato Scalfari, sempre lì a indicarlo come l’unico possibile bostik per un possibile futuro dell’umanità stessa.
Ah, ho immaginato anche, immancabile, il balletto delle facce di bronzo a unirsi al coro nonostante l’eco dell’immagine campale dello sfacelo lasciato a Roma, la città dove, appunto, il nome di tal Luca Odevaine, già vicecapo di gabinetto proprio di Veltroni in Campidoglio, giganteggiava accanto alla cappa di Cola di Rienzo, la Roma della schiuma del consenso spettacolare di cui adesso si contano ancora i cocci.
Pensavo tutte queste cose, sia pure in ordine sparso, immaginando che il diretto interessato assistesse da dietro l’angolo della spiaggia di Sabaudia, nascosto, al tentativo di riportarlo in vita politica. Mi sbagliavo: alla fine è stato lo stesso Veltroni a, chiudere l’ombrellone, cambiarsi di costume, e issarsi da solo, sia pure con l’ospitalità fissa della “Repubblica” di Mario Calabresi. Un piano perfetto, non una smagliatura, i boccaloni di sempre, lì a dire dai-dai-torna-Walter! Peccato che abbia trovato le parole-paracarro del mio amico: “Pensa, il virus che fa la diagnosi!”.
P.S.
Questo è il pezzo più banale che abbia mai scritto in vita mia, ragionando di Veltroni si potrà parlare perfino di contagio.

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