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venerdì 13 luglio 2018

ORIZZONTE48 - RAZZISMO, XENOFOBIA: LE FRONTIERE DELLA MISTIFICAZIONE.



Post di Arturo

Se avete un qualsiasi contatto con i media non potrete fare a meno di notare la 
reiterata, direi ossessiva, accusa di razzismo, quando non di fascismo, rivolta, oltre
 che al nuovo governo, agli elettori della maggioranza che lo sostiene.
Emblematica, tra le molte fonti pertinenti, un’intervista a Camilleri, che esordisce
 con questa surreale preterizione: “Non voglio fare paragoni ma intorno alle
 posizioni estremiste di Salvini avverto lo stesso consenso che a dodici anni, nel 
1937, sentivo intorno a Mussolini. Ed è un brutto consenso perché fa venire alla
 luce il lato peggiore degli italiani, quello che abbiamo sempre nascosto.



Vorrei soffermarmi in particolare su due aspetti: l’accusa di razzismo; il significato politico di tale accusa. In questo post mi concentrerò sulla prima, mentre rimando l’esame del secondo a un’altra occasione.

Vorrei iniziare recuperando osservazioni chiarificatrici avanzate a suo tempo da un intellettuale del calibro dLévi-Strauss, autore fra l’altro di due famosi interventi sull’argomento, entrambi redatti su commissione dell’UNESCO: Razza e cultura, nel 1952; Razza e storia, nel 1971 (per tutte queste notizie, e le citazioni che seguono, sto utilizzandoC. Lévi-Strauss, D. Eribon, Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano, 1988, cap. 16).
Osserva Lévi-Strauss, intervistato da Eribon:...
Però i giornali, la radio, eccetera, richiedono spesso il suo parere sulla questione del razzismo, e lei generalmente rifiuta di rispondere…
Non ho voglia di rispondere perché, in questo campo, si naviga in piena confusione, e qualunque cosa si dica so in anticipo che sarà male interpretata. Come etnologo sono convinto che le teorie razziste siano allo stesso tempo mostruose e assurde. Mabanalizzando la nozione di razzismo, applicandola a sproposito, la si svuota di contenuto, e si rischia di giungere al significato opposto a quello che si persegue. Infatti, che cos’è il razzismo? Una dottrina precisa, che si può riassumere in quattro punti. Uno: esiste una correlazione tra il patrimonio genetico da un lato e le abitudini intellettuali e le inclinazioni morali dall’altro. Due: questo patrimonio, da cui dipendono queste attitudini e queste inclinazioni, è comune a tutti i membri di certi raggruppamenti umani. Tre: questi raggruppamenti chiamati “razze” possono essere ordinati secondo una scala in funzione della qualità del loro patrimonio genetico. Quattro: queste differenze autorizzano le “razze” dette superiori a comandare, sfruttare gli altri, eventualmente a distruggerli. Teoria e pratica insostenibili per numerose ragioni che dopo altri autori, o contemporaneamente ad essi, ho enunciato in “Razza e cultura” con altrettanto vigore che in “Razza e storia”. Il problema dei rapporti fra culture si situa su un altro piano.

Qui sta la mistificazione su cui si gioca!

Quindi, secondo lei, l’ostilità di una cultura nei confronti di un’altra non è razzismo?
L’ostilità attiva sì. Niente può autorizzare una cultura a distruggere o reprimere un’altra. Quella negazione dell’altro si fonderebbe inevitabilmente su ragioni trascendenti: quelle del razzismo, o ragioni equivalenti. Ma che certe culture, pur rispettandosi, possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, è una situazione di fatto che è esistita in ogni tempo: è di norma nei comportamenti umani. Denunciandola come razzista si rischia di fare il gioco del nemico, perché molti sprovveduti diranno: se il razzismo è questo, allora io sono razzista.
[…]
Se comprendo bene la sua definizione di razzismo, lei ritiene che non vi sia razzismo nella Francia di oggi.
Si osservano fenomeni inquietanti, ma che – salvo quando si uccide un arabo perché è arabo, cosa che si dovrebbe punire all’istante e senza pietà – non appartengono al razzismo nel senso forte del termine. Ci sono e ci saranno sempre comunità inclini a simpatizzare con quelle i cui valori e il cui genere di vita non contrastano con i propri; e meno con altre. Ciò non impedisce che anche con queste ultime i rapporti possano e debbano restare sereni. Se il mio lavoro richiede il silenzio e se una comunità etnica si trova bene nel rumore o se ne compiace perfino, non la biasimerò e non metterò sotto accusa il suo patrimonio genetico, preferire tuttavia non abitare troppo vicino, e non mi piacerebbe che con quel falso pretesto si cercasse di farmi sentire in colpa.

Alla luce di queste utili riflessioni potremmo quindi concludere che: salvi episodi criminali, da condannare senza esitazione, non ha senso parlare di razzismo in relazione a posizioni ostili all’immigrazione; sarebbe forse più pertinente evocarlo, congiuntamente al classismo, a proposito di chi si augura un arrivo di immigrati per svolgere mansioni che gli italiani, molto ipoteticamente, rifiuterebbero, quasi che l’immigrato debba essere naturalmente relegato a lavori faticosi e poco remunerativi. Su questo argomento tornerò dopo.





Ci si potrebbe però allora domandare se non sia invece fondata l’accusa di “xenofobia”.

Io direi proprio di no: xenofobia evoca un timore irrazionale, una paura priva di fondamento; qui però di infondato c’è ben poco.



Come su questo blog è stato detto e ripetuto, il controllo dell’immigrazione costituisce una prerogativa dello Stato nel diritto internazionale, il cui esercizio il nostro diritto costituzionale vincola ai fini di una sovranità democratica fondata sul lavoro (vedi soprattutto qui, in particolare n. 7 e n. 8).
Che l’immigrazione possa rappresentare una duplice minaccia, economica e politica, per i cittadini e lavoratori del paese di arrivo, è stato ampiamente argomentato citando il già linkato Chang, l’American Socialist Party, Barba e Pivetti (n. 6), Engels e Korpi mentre un utile esame di fonti marxiane è stato compiuto da Visalli e da Moreno Pasquinelli.

(Per duplice minaccia, non fosse chiaro, si intende sia l’attacco diretto ai salari, sia la moltiplicazione di conflitti sezionali di tipo culturale (menzionati qui, n. 13.1; per l’osservazione che si tratta di un caso specifico di una più generale prassi delle élite globaliste, di oggi e di ieri, vedi le osservazioni di Rodrik, riportate qui, n. 4).

Qui intendo riportare ulteriori fonti, non bastassero quelle già esaminate: cominciamo conDean Baker, economista americano non certo di destra.
Nel suo libro, The Conservative Nanny State. How the Wealthy Use the Government
to Stay Rich and Get Richer,  Center for Economic and Policy Research, Washington DC, 2006 (che potete peraltro scaricare liberamente qui), figura un interessante paragrafo dal titolo: “Immigrazione: un altro strumento per la compressione salariale”. Citerò, traducendo, da pagg. 23 e 24.
Vediamo un po’: L’immigrazione è stato un altro importante strumento per deprimere i salari di un segmento significativo della forza lavoro. Il meccanismo con l’immigrazione è esattamente lo stesso che col commercio: si approfitta dei miliardi di lavoratori nei paesi in via di sviluppo disponibili a lavorare per un salario più basso dei lavoratori americani per abbassare i salari in un ampio ventaglio di professioni.
Le leggenda dello “stato balia” conservatore è che gli immigrati fanno lavori che i lavoratori americani non vogliono più fare [mi ricorda qualcosa questa argomentazione…], come per esempio custodi, lavapiatti e raccoglitori di frutta, tutti lavori con salari molto bassi. Il problema con questa leggenda è che la ragione per cui è poco probabile che i lavoratori autoctoni vogliano svolgere questi lavori è perché sono poco pagati, non perché sono sgradevoli in sé. Lavoratori autoctoni sono stati disponibili a fare molti lavori spiacevoli, se ben retribuiti. Il confezionamento della carne è un ovvio esempio di un industria che offriva lavori relativamente ben pagati, molto ricercati dagli autoctoni, anche se nessuno sarebbe particolarmente felice di lavorare in un macello. Questo è meno vero oggi che nel passato, perché l’industria di confezionamento della carne ha approfittato della disponibilità di lavoratori immigrati per peggiorare i salari e le condizioni di lavoro del settore. Il risultato è che oggi gli immigrati costituiscono una vasta porzione della forza lavoro nell’industria di confezionamento della carne.
Lo stesso avviene per tutti i lavori che in teoria i lavoratori autoctoni non vorrebbero fare: sarebbero in realtà disponibili a lavare piatti, pulire gabinetti e raccogliere pomodori per 20 $ l’ora. Quanto i conservatori “statalisti” affermano che non riescono a trovare autoctoni per questi lavori intendono che non riescono a trovarne ai salari che vogliono pagare, nello stesso modo in cui la maggior parte di noi non troverà un dottore o un avvocato autoctono disponibile a lavorare per 15 $ l’ora.

Salta agli occhi come l’armamentario retorico che ci viene propinato, da noi a quanto pare ritenuto più spendibile se imbellettato con un’allure “progressista”, è precisamente quello denunciato da Baker.

Un’altra fonte utile, e direi abbastanza devastante, per studiare gli effetti sociali e culturali dell’immigrazione di massa è questo paper di Robert Putnam.
Notate bene che l’autore è favorevole all’immigrazione, ma un esame onesto dei dati e della vasta letteratura lo costringe a dipingere un quadro piuttosto scoraggiante, per usare un eufemismo.
Ve ne riassumo i punti principali.
In primo luogo Putnam ammette (pag. 142) che la “contact hypothesis”, sostenuta, io direi in assai dubbia buona fede, dai multiculturalisti, secondo cui la diversità aumenterebbe la tolleranza e la solidarietà sociale, non è supportata dalla maggioranza degli studi, che tende invece a convalidare la “conflict theory”, secondo cui la “diversità alimenterebbe la sfiducia extra-gruppo e la solidarietà intra-gruppo”, cioè sostanzialmente la ghettizzazione.
Quello che è interessante del lavoro di Putnam è che in realtà le sue conclusioni sono ancora peggiori di così. Studi empirici svolti in USA, Australia, Svezia, Canada e Gran Bretagna riscontrano una correlazione fra immigrazione, riduzione della solidarietà sociale e addirittura dell’investimento in beni pubblici. L’aspetto però più disturbante dei risultati di Putnam è che la solidarietà sociale non tende semplicemente a restringersi a un più piccolo gruppo di “simili”, ma cade in generale, anche all’interno dei vari gruppi etnici. La conclusione (pag. 149) è che la “differenza tende a innescare non una divisione fra esterni e interni al gruppo, ma anomia e isolamento sociale. In termini colloquiali, la gente in ambienti etnicamente differenziati tende a ritirarsi nel proprio guscio, come una tartaruga”. E questo vale per tutti i gruppi esaminati, con modeste differenze per età, sesso e convinzioni politiche.
Non molto incoraggiante per chi ritiene importanti valori come solidarietà e impegno; appetibile per chi da sfiducia e astensionismo ha tutto da guadagnare.
In effetti l’happy end multiculturale di Putnam si riduce a un “hunch” (pag. 163), un’intuizione. Andiamo bene. Naturalmente però irrazionale e razzista è sempre il popolino ignorante.   

Con ciò, sia chiaro una volta per tutte, non si intende affatto rinunciare a valori come universalismo e solidarietà, ma semplicemente prendere atto che per affrontare in modo quanto più democratico possibile situazioni complesse e fra loro molto diverse, si richiede un’articolata pluralità di mediazioni politiche, non bambineschi, ma interessati, “we are the world”, imposti a colpi di ciniche strumentalizzazioni di tragedie del passato.

Per esempio che l’emigrazione risulti dannosa per il paese che vi fa ricorso – ne abbiamo parlato a proposito di un intervento dei vescovi africani (n. 7) – è un fatto noto da lunga pezza alla letteratura economica dello sviluppo.
Nei lontani anni ’50 Myrdal (An International Economy, Harper & Brothers, N. Y., 1956, pag. 95) scriveva: “Chiedere ai paesi ricchi di aprire le loro frontiere all’immigrazione di massa sarebbe davvero una discutibile forma di idealismo. Se in un paese persiste una situazione di eccedenza di manodopera in quanto lo sviluppo economico non tiene il passo con l’aumento di popolazione, occorre aumentare il ritmo dello sviluppo quanto le risorse del paese consentono. Se non è comunque possibile conseguire il pieno impiego, l’aumento della popolazione dovrebbe essere controllato. Affidarsi ai paesi stranieri perché si scelgano lavoratori formati che, seppure non rappresentano un gran valore produttivo nel loro paese, finché esso rimane sottosviluppato, costituiscono comunque costi notevoli spesi per loro fino a quando non sono pronti per emigrare, rappresenta la via alla povertà permanente.

Insomma, con tutti i quantocicosta con cui ci bombardano quotidianamente, potrebbero degnare di un minimo di attenzione la tragedia sociale, e costituzionale, dell’emigrazione italiana, che da anni si consuma sotto i nostri occhi. (E che ovviamente non si intende minimamente ridurre a un problema di poste contabili…).  










MARTEDÌ 10 LUGLIO 2018

IL POPULISMO HA FAME: NON CHIAMATELI RAZZISTI



Post di Sofia
1) Alessandro Turci (su Panorama di oggi  9 luglio 2018), usa un termine ormai stra-noto: “POPULISMO”; per etichettare l’ideologia dei sovranisti anti migranti che ridurrebbe a una bieca forma di egoismo sociale, sovranisti che giocano allo scaricabarile. E si legge: “è forse giunto il momento di chiedersi se il populismo, oltre alla difesa dell’olio d’oliva e al me ne frego sui vincoli di spesa pubblica, ha qualcosa in più da offrire alle sfide della società moderna” e si domanda anche quali saranno gli effetti del post-populismo.
Quando le pulsioni del popolo saranno soddisfatte - e lo Stato avrà ricevuto tramite la democrazia diretta il potere di sottomettere e punire, chiudere i porti a individui e merci - il popolo medesimo si troverà al capolinea di quest’impari dialettica. S’accorgerà, in parole povere, di aver delegato per intero potere e contrappesi, e gli resterà come sola speranza l’unico principio che credeva invece essere il nemico mortale: la ragione. Cioè l’iniziativa illuminata di una nuova leadership che torni a dare equilibrio tra tutte le componenti del patto sociale: il popolo, i suoi delegati, le sue leggi.
Turci ritiene che la differenza fondamentale tra l’ancien régime e il nuovo corso, è tutto nel rapporto tra popolo e potere. Quando il primo cede alle sirene del populismo, cioè l’illusione di aver trovato l’incarnazione della volontà popolare in un solo uomo o movimento, tutto quello che può ottenere in cambio è, per usare un vocabolario da antico regime, octroyés. Cioè concesso come grazia, proprio come i sovrani concedevano ai popoli le Costituzioni. Il populismo è lo stesso principio, solo ribaltato. Rappresenta il viatico che porta alla relativizzazione dello stato di diritto. Alla fine del tunnel populista albeggia, quindi, l’agonia delle garanzie costituzionali.

2) Le parole del giornalista si commentano da sole, anche se non sono certo una novità.
Come giustamente aveva a suo tempo sottolineato Quarantotto, se il popolo italiano, non certo in ragione di una minima informazione fornitagli sui veri obiettivi della riforma (appunto diretta a consentire il più "efficiente" rispetto di regole economiche sul debito e sulla spesa pubblica, estranee e contrarie alla Costituzione), si pone delle domande e "resiste" - secondo quel "diritto di garanzia costituzionale" riconosciuto dallo stesso Mortati -, si grida al "populismo".
Così come Federico Caffè, protagonista della fase Costituente, già nel 1978 (in occasione dell'adesione italiana allo SME) aveva evidenziato come "il fastidio del tutto esplicito per le soluzioni non elitarie e l’artificiosa attribuzione della qualifica di “populismo a ogni aspirazione di avanzamento sociale, avvengano con la tacita acquiescenza delle forze politicamente progressiste ".
Dunque "populismo" è un termine che esprime "il fastidio per le soluzioni non elitarie".
E quali soluzioni sono più elitarie e impenetrabili alla comprensione del cittadino comune delle clausole dei trattati liberoscambisti che instaurano in €uropa e nel mondo, il capitalismo sfrenato delle multinazionali, della finanziarizzazione del potere istituzionalizzato e della competizione a scapito dell'occupazione e del welfare?
Turci disdegna le forme di democrazia esercitate dal popolo (e quindi populiste. Quando la Francia di François Mitterand, nel 1981, abolì la pena di morte, ebbe l’intuizione e il coraggio di evitare un referendum popolare. Se i francesi fossero stati chiamati a esprimersi per via referendaria, probabilmente la pena capitale non sarebbe mai stata cancellata dall’impianto penale francese, come invece avvenne per decreto.
Insomma, il corpo elettorale, per definizione, non può capire cosa veramente gli convenga...E non proporgli sacrifici e sceltedolorose sarebbe da destra xenofoba (e populista).  

3) Il termine “populista” - ossia, il rendersi portavoce delle istanze del popolo  (nel senso evidenziato da Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, 1965, secondo cui “perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello”) - è ormai stravolto; è considerato l’arma dei partiti di governo dell’Unione Europea per tracciare una differenza ontologica tra essi e i partiti che propongono una visione diversa della società, i cosiddetti “antisistema”: 
Solo noi (centristi ed europeisti) siamo governativi, gli altri sono solo alla ricerca di facili consensi”. Con questa strategia comunicativa – ormai più efficace della vecchia “reductio ad hitlerum” – i partiti “di sistema” indicano i loro oppositori come immaturi e utopisti, quando non mistificatori e ingannatori, e dunque preclusi al governo di un Paese.

4) Nicola Tranfaglia (nel suo libro Populismo: Un carattere originale nella storia d’Italia) pensa al populismo inteso come capacità di coinvolgere le masse degli umani, dicendo esattamente quello che vogliono sentirsi dire e perciò, non dovendo attuare un programma preciso o dettato da una ideologia pregressa, dispone della flessibilità necessaria per andare, di volta in volta, incontro alle esigenze e ai desideri del SUO popolo.
E Loris Zanatta (nel proprio saggio: "Il populismo", Carocci editori, Roma, 2013) scrive:
"Nel "nucleo" del populismo ritroviamo in sintesi un orizzonte ideale che non solo rigetta l'ethos della democrazia di tipo liberale, ma ne fa la più robusta corrente antiliberale dell'era democratica. Poco impor­ta, a tale proposito, che taluni leader o movimenti populisti esibiscano credenziali liberali, come nei casi dei rivoluzionari messicani, orgogliosi eredi di Benito Juàrez, dei presidenti Menem e Fujimori nell'Argentina e nel Perú degli anni novanta del Novecento, autori di politiche neolibe­rali, o del partito fondato nel 1994 da Berlusconi invocando nientemeno che la "rivoluzione liberale": in tutti questi casi, simili professioni ideali non hanno impedito che si imponessero logiche estranee alla democra­zia liberale; ora approdando in Messico a un rigido sistema corporativo, ora riproducendo nei casi di Argentina e Perù i fenomeni patrimoniali­sti e clientelari tipici dei populismi, ora attentando alla separazione dei poteri e introducendo velate forme di governo plebiscitario in nome del popolo nel caso italiano di Berlusconi". 

5) E solo qualche giorno fa, invece, il più romantico Enrico Pazzi, giornalista dell’Huffington post, ricordando i bei tempi che furono, per quelli che credevano fortemente nella globalizzazione e che oggi si ritrovano oramai disillusi e più vecchi di 20 anni, si riferisce al presente come al “giorno contrassegnato dal populismo più becero, sostenuto dalla paura quale metro di pensiero collettivo. La paura quale fondamento ideologico dell'amore politico”. 
E la sua acuta ed intelligente conclusione è che “sia necessario avere comprensione per coloro che danno il proprio consenso ai partiti e movimenti populisti. Non basta l'ignoranza a spiegare i milioni di voti a favore dei populisti. C'è qualcosa di più profondo e intimo. C'è una grande solitudine al fondo delle cose. Una mancanza di comunità, che si è disgregata non oggi, ma vent'anni fa. Che ci si dica di destra o di sinistra, che si creda o meno ai vantaggi di stare in Europa…c'è da curare prima di ogni altra cosa quella grande solitudine che ci blocca in un eterno presente populista”.
Sante parole quelle di Pazzi, accidenti! Se non ci fossero quelli come lui a fare analisi tanto sofisticate!
Come faremmo a non comprendere che quello che ci blocca in questo presente populista non è la mancanza di lavoro e di prospettive, l’impossibilità di riuscire mai a comprarsi una casa, di mettere da parte dei risparmi per curarci quando saremo vecchi, non è una quotidianità fatta di immondizia che straborda in ogni angolo della città,  i mezzi pubblici che non funzionano, le liste di attese alla ASL o le code al pronto soccorso di un ospedale, le strade che non asfaltano da vent’anni o lo stato di abbandono che trasuda in ogni centimetro delle nostre città…no, no…ciò che ci blocca nel populismo è proprio una GRANDE SOLITUDINE AL FONDO DELLE COSE.



6) Penso sia superfluo sottolineare il senso di mortificazione che suscitano queste opinioni in tutti quelli che non si sentono affatto un branco di pecore acefale, ma uomini e donne che credono ancora nella sovranità che appartiene al popolo, nel rispetto dei diritti fondamentali costituzionali e nel fatto che la Costituzione non sia il libro dei sogni ma debba invece costituire l’essenza imprescindibile di ogni programma di governo: e per ogni Governo che si ponga dignitosamente alla guida del suo Popolo.
Ma ovviamente i media fanno il proprio gioco, o meglio il gioco di chi li paga, e denigrare non basta, occorre anche terrorizzare, indurre un senso di spavento e di timore.

7) Chi non ha visto ieri lo Speciale di Alessando Marenzi su Sky Tg24 sul sondaggio condotto su chi vorrebbe uscire dall’euro? Il 74% dice di no. Il servizio è stata una apoteosi di false informazioni e terrorismo psicologico, come se, peraltro, la Brexit non esistesse e non valesse come esempio (se pure con le dovute differenze visto che il regno Unito non è mai entrato nell’Euro) di come debba essere condotta una uscita, per non creare proprio quelle situazioni di emergenza e irrecuperabilità che gli espertoni espongono ad ogni più sospinto.

8) Francesco Borgonovo, giornalista de “la Verità” (nell’articolo di domenica 8 luglio “Amato si confonde e annuncia il ritorno delle leggi razziali”), riporta le parole di G.AMATO che addirittura rievoca le Leggi antiebraiche e sostiene che quando iniziative come queste (riferendosi alle politiche anti immigrazione dell’attuale Governo) si verificano, non c’è soltanto un regime con il suo carico di violenza e repressione. C’è anche un cambiamento che penetra nelle coscienze e altera il rapporto interno alle stesse. Questo accadde allora…ma è evidente che stia per accadere di nuovo. Dice in senso allarmistico…non è che ci sta cominciando ad accadere qualcosa? Se le leggi razziali sono dietro l’angolo è colpa dei populisti e dei sovranisti.  “Il sovranismo che ha sempre una sua matrice razzista, rischia di danneggiare l’idea stessa di Europa e di compromettere la difesa del fondamento degli ordinamenti costituzionali nati nel solco degli orrori della Shoah: la dignità umana”.
Ecco quindi qual è il problema: che i sovranisti minacciano l’Europa e la Costituzione (ma non è chiaro Amato come intenda la Costituzione, anzi lo sappiamo e ho l’impressione che lo vedremo presto anche nelle sentenze della Corte, purtroppo) e sono razzisti.
Insomma è razzista chi critica l’immigrazione di massa o invochi il rispetto della legge italiana o si opponga all’azione delle Ong, chi vuole proteggere i confini del proprio paese.

9) A queste parole di Amato, lo stesso quotidiano di domenica, contrappone l'articolo di Claudio Risé (“Il declino delle élite affossate dal progresso”)  che affronta il tema dell'alternanza delle elite in maniera probabilmente riduttiva e incompleta ma che pare avere l'intenzione di provare ad evidenziare un fenomeno e le sue caratteristiche in maniera diversa da quanto vorrebbe fare Amato.
Cita (impropriamnete) le parole di Giuseppe Prezzolini fondatore della Voce: L’aristocrazia dei briganti: siamo con Pareto nel disprezzo per tutta quella parte di classe dominatrice paurosa, imbelle, atrofizzata per l’inerzia…suicida di paura”. 
Arturo mi segnalasi che si tratta di un pezzo del 1903 pubblicato su Il Regno, un settimanale nazionalista, in cui ci si lagnava della codardia borghese di fronte all’avanzata “brigantesca” del socialismo. Era insomma un articolo antigiolittiano, e giolittismo e piddinismo sono fenomeni di segno sociale completamente diverso, sinanche opposto. Emilio Gentile, allievo prediletto di De Felice, non particolarmente “progressista”, commenta in questi termini l’articolo di Prezzolini (Il mito dello Stato nuovo, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 100): “L’analisi della lotta politica fatta da Prezzolini non supera i limiti e i pregiudizi di una concezione schiettamente reazionaria, prospettando una astratta rinascita borghese che avrebbe lasciato da parte le masse contadine del Mezzogiorno e le prime organizzazioni operaie del Settentrione”.
Risè forse affronta il problema in modo un po' riduttivo quando parla della inerzia della paura, quella che dalla vigilia del fascismo rimane una delle principali caratteristiche delle élite malate destinate ad essere sostituite da quelle nuove e dinamiche, più motivate. 
Secondo Risè le vecchie élite non hanno motivazione perché la prevalenza degli interessi materiali produce su di esse un appesantimento, una intossicazione nelle motivazioni provocando una sorta di sclerosi, un rallentamento nel ricambio e nel movimento. 
Mentre la presenza di ideali e attenzione agli interessi collettivi fornisce ai nuovi dirigenti il coraggio di sviluppare e usare la forza, con una determinazione di cui le vecchie élite impaurite non sono più capaci.
Richiama Pareto (ma vedasi  - a proposito di elitismo, Malthus e Pareto i recenti posti di Bazaar  con la collaborazione di Francesco Maimone e Arturo – parte prima parte seconda) quasi a voler evidenziare un processo storico inevitabile, ossia il succedersi delle aristocrazie, delle élite, delle minoranze che si formano, lottano e conquistano il potere, le quali a loro volta, con il procedere del tempo, si logorano e decadono per farsi sostituire da nuove minoranze dotate di quelle risorse psichiche di energia e flessibilità che le vecchie élite avevano consumato e smarrito.
Un alternarsi tra la classe di residui guidati dall‘istinto delle combinazioni (ossia la propensione al cambiamento, a innovare, a inventare o a produrre nuove iniziative), e che hanno la personalità delle volpi (individui creativi, pazienti, manipolatori, propensi a ricorrere all’astuzia e al compromesso); e la classe guidata dalla persistenza degli aggregati (l’espressione del sentimento conservatore, chi esalta la continuità, la stabilità e il mantenimento dei rapporti tradizionali) con gli impulsi propri della personalità dei leoni (propensi alla risolutezza, allo scontro e alla inflessibilità).
E nel ritenere che nella realtà non vi sarebbe mai un equilibrio tra le  volpi e i leoni, ma che prevarrebbero gli uni o gli altri in un processo di avvicendamento, Pareto rievoca il concetto di poliarchia di Dahl, il governo di molti, le strutture politiche dello Stato che assicurano una pluralità di interessi minoritari in perenne competizione tra loro nel quale nessuno è in grado di prevalere e divenire maggioritario. Concetto di poliarchia, a sua volta criticato da Bachrach e Baratz proprio per il fatto di non prevedere quelle forme di potere che non coincidono con le decisioni prese, ma esprimono piuttosto la selezione dell’agenda politica, in cui si stabiliscono anticipatamente i confini, le regole e la partita in gioco. Si tratta di non-decisioni che rientrano comunque nell’esercizio del potere. Le decisioni importanti vengono tenute fuori dall’élite, dall’agenda esplicita delle decisioni e dunque non vi è possibilità di concorrere alla scelta. Sostanzialmente, quindi, esisterebbe un doppio livello di potere di cui uno solo è osservabile. 
Insomma, pur apprezzabile lo sforzo di Risè, l'estrapolazione ad effetto non convince. Anche in questo caso il prezioso apporto di Arturo ci rivela, invece, che l’elitismo moschian-paretiano, come diceva Gramsci, se è fondato nel riconoscimento del ruolo organizzatore delle minoranze, è incapace di interpretare i cambiamenti storici a causa del suo formalismo sociologico, per cui gli avvicendamenti fra élite si riducono a fenomeni psicologici (la paura, l’inerzia…ma quale inerzia, in questi anni son state di un’alacrità feroce!), moralistici (la prevalenza di interessi materiali, che vuol poi dire la corruzione); al massimo si parla di un mancato rinnovamento.
Coglie molto più nel segno (come segnala sempre Arturo), seppure senza rinunciare a certi stereotipi, l’articolo di Santomassimo, pubblicato sul Manifesto (http://sollevazione.blogspot.com/2018/07/ce-vita-su-marte.html ): “A mio avviso il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento.”  Questo pare il nocciolo della questione. Naturalmente apprezzabile anche la confutazione dei fantasmi fascisti: “Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche Union sacrée repubblicana sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.” 

10) Ora, il discorso sarebbe complesso e lungo, e dovrebbe passare necessariamente anche per le critiche di Polsby e l’Elitismo post-moderno (si veda Élite dirigenti. I gruppi di vertice nel capitalismo olonico – Armando Editori 2011 Di Luigi Gentili), e forse il tutto non si riduce propriamente alle considerazioni di Risè, ad una quasi casuale alternanza (se pure considerata storica), alla lotta tra Leoni (i politici che danno una forte importanza agli equilibri che garantiscono, all’indispensabile continuazione della società umana e animale, difensori della sicurezza di tutti i cittadini), e volpi (che astutamente giocano tra le diverse combinazioni possibili, spesso per il proprio interesse personale, cioè gli speculatori, che si diffondono nelle civiltà giunte all’apice della ricchezza, ma dirette verso sicura decadenza appunto per la scarsa attenzione al benessere e alla sicurezza collettiva).
Ma certamente gli uomini e le donne di questa fase storica, nonostante l’occultamento degli sforzi di chi sta in trincea e le mistificazioni dei media,  lottano per vedere realizzata questa alternanza che è divenuta una questione di sopravvivenza. Un'alternanza che laddove si realizzasse, non sarebbe certo per la becera sopraffazione dei populisti sulla precedente classe elitaria, ma sarebbe per la presa di coscienza che (come giustamente riporta Crisè) esistano personaggi come George Soros, il più grande speculatore della nostra epoca, vecchia e astutissima volpe della finanza internazionale (peraltro in ottima compagnia), che in maniera strategica e mirata specula contro i diversi interessi nazionali, e  si batte per la libertà di immigrazione e, assieme, dei diversi “diritti”, scegliendoli accuratamente tra quelli più destabilizzanti per le culture tradizionali dei diversi Paesi. Sarebbe dunque per la presa di coscienza che l’Euro e l’Europa sono strumenti di potere nelle mani di queste volpi. Che non è certo il senso di una “grande solitudine al fondo delle cose” (a meno che non si faccia riferimento all’abbandono delle istituzioni asservite a dettami sovranazionali) a far desiderare alternative e soprattutto soluzioni, ma il senso di fame, il senso di angoscia per la povertà che incombe sulle nostre teste, il senso di disfacimento di istituzioni, strutture democratiche, sistemi assistenziali e costituzionalmente solidaristici; un angoscia e un senso di ribellione al disfacimento, portati avanti con meticolosità e metodo da ombre potenti contro cui il POPOLO, finalmente, ricomincia a far sentire (forte) la sua voce.---


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