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mercoledì 4 luglio 2018

Marco Travaglio: “É saltato il tappo”....

– di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2018 –
 In due mesi e mezzo, due sentenze di Corte d’Assise – Palermo sulla Trattativa e Caltanissetta nel Borsellino-quater – hanno clamorosamente riaperto un capitolo che qualcuno temeva e qualcun altro sperava definitivamente chiuso: quello dei mandanti esterni delle stragi del 1992 che costarono la vita fra Capaci e via d’Amelio a Falcone, a Borsellino e ai loro angeli custodi.
Forse è un caso che queste due sentenze (la prima è solo il dispositivo, la seconda sono le motivazioni di un verdetto del 2017) giungano proprio all’indomani delle elezioni che hanno scacciato dall’area di governo i partiti-cardine della Seconda Repubblica, nata sul sangue delle stragi: FI e Pd.
Ma non c’è dubbio che il governo giallo-verde, in gran parte estraneo all’establishment che avviò la prima trattativa con la mafia nel 1992 e si riciclò al seguito...
di B. fino a chiuderla nel 1994, abbia fatto saltare il grande tappo che per 25 anni ha coperto tante verità indicibili. Quando avremo anche le motivazioni sulla Trattativa, potremo leggere insieme i due verdetti (di primo grado) per unire i puntini rimasti finora isolati e intravedere il disegno complessivo di quella stagione terribile. Ma molte cose sono già chiare oggi, anzi lo erano anche prima del timbro di autenticità delle due Corti.
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione (collegio non presieduto, per la prima volta, dal giudice Carnevale detto ”l’Ammazzasentenze”) conferma le condanne del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino. E scatta la campagna terroristica pianificata mesi prima dalla Cupola corleonese e dai suoi consulenti istituzionali, con due obiettivi: punire i politici che non hanno mantenuto le promesse e rimpiazzarli con una classe dirigente più affidabile per Cosa Nostra.
Viene ucciso Salvo Lima, proconsole mafioso di Andreotti in Sicilia e primo di una lista di “traditori” veri o presunti da eliminare. Gli altri sono i dc Andreotti, Mannino e Ignazio Salvo e i socialisti Martelli e Andò. Che però, dopo pedinamenti e appostamenti, verranno risparmiati (Salvo a parte) proprio grazie alla trattativa, che li renderà più utili da vivi.
Andreotti viene colpito politicamente con l’assassinio di Falcone (dirigente del suo governo) proprio mentre sta per essere eletto presidente della Repubblica (al suo posto, passa Scalfaro). All’indomani di Capaci, il Ros di Subranni e Mori chiede a Ciancimino di fare da tramite con Riina per una trattativa basata su un do ut des: fine delle stragi in cambio della linea morbida dello Stato. Ma Borsellino si mette di traverso. Indaga in segreto sui retroscena della strage.
Riapre vecchi fascicoli (intervistato alla vigilia di Capaci, mostra le carte di un dossier sui rapporti fra Mangano, Dell’Utri e B.). Scopre la trattativa e si prepara a farla saltare. Bisogna eliminarlo subito: qualcuno, dalle istituzioni, avverte i corleonesi e quelli, con un’accelerazione imprevista e suicida (basta aspettare altri 15 giorni e il decreto sul 41-bis, varato dopo l’omicidio Falcone, sarà affossato in Parlamento), rimuovono l’ostacolo in via D’Amelio. Alla preparazione dell’autobomba, in un garage del quartiere Brancaccio dominato dai Graviano, il killer pentito Spatuzza dirà di aver visto assistere un personaggio molto elegante, sconosciuto a lui e agli altri. E un altro pentito mai smentito, Nino Giuffrè, fedelissimo di Provenzano, racconterà che prima di agire Riina aveva “sondato persone importanti del mondo economico e politico”. Ma eliminare Borsellino non basta: se gli inquirenti trovano nell’auto semicarbonizzata l’agenda rossa su cui segnava gli esiti delle ultime indagini di quei 57 giorni, i suoi colleghi le seguiranno e bisognerà eliminarli tutti.
Così viene architettato quello che la Corte di Caltanissetta definisce “il più grande depistaggio della storia” d’Italia. In due mosse: prima un uomo dello Stato, ammesso al perimetro ancora fumante della strage, trafuga l’agenda e la fa sparire; poi gli agenti della Mobile di Palermo guidata da Arnaldo La Barbera imbeccano un piccolo spacciatore travestito da boss, Enzo Scarantino, e due scassapagghiari come lui convincendoli o costringendoli ad autoaccusarsi della strage, a tirare in ballo qualche colpevole e qualche innocente, a mescolare mezze bugie e mezze verità, tenendo basso il livello delle responsabilità perché non si arrivi ai Graviano e ai loro suggeritori.
Missione compiuta: i dubbi su Scarantino – che nel frattempo alterna ritrattazioni a ritrattazioni delle ritrattazioni – dei pm Boccassini (a Caltanissetta) e Ingroia (a Palermo) vengono ignorati dalla Procura nissena, ma soprattutto da decine di giudici di primo, secondo e terzo grado, che consacrano irrevocabilmente la verità farlocca su via D’Amelio.
Buona o cattiva fede? Difficile accertarlo un quarto di secolo dopo: certo era difficile, allora, dubitare di tre rei confessi e soprattutto del pluridecorato La Barbera, che ora i giudici definiscono “fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni” e “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda”. Idem per il colonnello Mori, già allievo di Dalla Chiesa ai tempi delle Br, che intanto proseguiva la trattativa e, arrestato Riina, ordinava di non perquisirne il covo, a tutto vantaggio di Provenzano, nuovo terminale del turpe negoziato. Oggi, al 41-bis, ci sono decine di mafiosi che sanno tutto – movente e mandanti esterni – delle stragi e dei depistaggi. E, fuori, diversi pentiti che non hanno detto tutto perché convinti – come già Buscetta con Falcone su Andreotti – che negli anni del centrodestra e del centrosinistra le “condizioni politiche” fossero le più sfavorevoli per farlo. Ora si spera che, saltato il tappo, si faccia avanti qualcuno. Se aspettiamo un pentito di Stato, facciamo notte.

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