PS: Ottimo articolo...da non perdere.
umberto marabese
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Il Parlamento è stato svuotato da anni, il governo è assente, la presidenza della Repubblica è coinvolta nell’impasse. Lo stallo politico è diventato istituzionale. E può avere effetti gravissimi
Per sessanta giorni abbiamo pensato che in queste settimane fosse decisivo provare a formare un governo, trovare il nome di un presidente del Consiglio, comporre una maggioranza parlamentare, ma ora appare evidente che la lunga crisi che stiamo vivendo non è come tante altre, non si chiuderà semplicemente con la nascita di un ministero balneare, come avveniva nella Prima Repubblica. Quella attuale non è una crisi di governo, ma qualcosa di ben più allarmante: una crisi di sistema. La messa a rischio di tutte le istituzioni previste dalla Costituzione entrata in vigore settant’anni fa. Il pericolo concreto della caduta, del crollo, del crack finale, che porta con sé i settori economici e produttivi che più hanno bisogno di istituzioni funzionanti per competere. La conclusione di un processo che non è cominciato con le elezioni del 4 marzo, come scrive Massimo Cacciari sull’Espresso in edicola, e neppure con il fallito referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, come pensa il revenant Matteo Renzi, in un intervento che ha avuto il merito di portare la crisi alla dimensione giusta, non solo politica ma istituzionale, e la colpa di essere legato interamente alla parabola di un’esperienza politica (la sua, quella di Renzi), con l’effetto di devastare quel che rimaneva del Pd.
Ma lo stallo attuale non si risolve soltanto con la richiesta di nuove riforme: l’ultima modifica della Costituzione è stata sonoramente respinta dal voto degli italiani, l’ultima riforma elettorale, il Rosatellum, approvata a colpi di voti di fiducia parlamentari, è la causa prossima di questo disastro. E la crisi di sistema non comincia né il 4 marzo 2018 né il 4 dicembre 2016.
Di crisi di sistema aveva parlato il segretario del Partito socialista Bettino Craxi in un famoso editoriale sul quotidiano del partito Avanti!: «Piuttosto che inseguire le polemiche quotidiane che si aggirano in ambiti sempre più ristretti, converrà forse allargare lo sguardo allo stato di salute della nostra democrazia… Si apre il varco verso una fase più oscura della crisi politica e della crisi di sistema, il fossato della sfiducia che separa ed allontana i cittadini dalle istituzioni si allargherà ancor più e pericolosamente… Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e due passi dalla crisi delle istituzioni». Era il 28 settembre 1979 e quell’articolo si intitolava “Ottava legislatura”. Era l’intervento con cui Craxi aveva lanciato la Grande Riforma istituzionale: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale».
Oggi di legislature ne sono passate dieci, siamo alla diciottesima, e i passi per affondare nella crisi sono stati ampiamente compiuti. Nulla è stato fatto, neppure dal segretario socialista: nel decennio successivo divenne il leader che più aveva da guadagnare dalla paralisi del sistema, coltivando la sua rendita di posizione, la rocca di Ghino di Tacco del dieci o del quattordici per cento del suo Psi da cui tutti dovevano passare. Ma la crisi era cominciata ancor prima, nel cuore degli anni Settanta, resa irreversibile dal fallimento del progetto di Aldo Moro e dall’eliminazione violenta del suo protagonista. «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla. Ma senza negare che in qualche caso (v. Francia) un sistema elettorale possa consentire di raggiungere certi obiettivi, in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Lo aveva scritto con stupefacente lucidità, date le sue condizioni, il prigioniero delle Brigate rosse nel suo memoriale stilato nei 55 giorni della sua prigionia.
«In verità c’è stata in Italia una serie di momenti caratterizzati dalla valorizzazione di una riforma strutturale. Altrove ho ricordato il favore di taluno per il maggioritario e l’uninominalismo. C’è stata l’epoca della repubblica presidenziale, come forma di massimo ed efficace accentramento dell’esecutivo. Ma che dire ora che questi metodi si mostrano di dubbia validità nei paesi di loro origine? A che è valso il presidenzialismo di Nixon? E quello, che pareva trionfare, dello stesso Carter? A che è servito davvero il sistema maggioritario a Giscard, Callaghan e in un certo senso Schmidt? Mi pare che la prefigurazione del domani, più che in ragione di nuove istituzioni perlomeno ancora non inventate, debba consistere, ovviamente nell’attesa che esse vengano alla luce, nella preparazione migliore degli uomini nei partiti e nella vita sociale ed in una più accurata soluzione».
Una «più accurata soluzione» non è mai arrivata. Si è continuato a provare ad accordare con «strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». E ora, a quarant’anni dall’omicidio di Moro il 9 maggio, la crisi del sistema si è attorcigliata in modo letale. In questi anni la prima istituzione a venire meno, non solo in Italia, è stata il Parlamento. La frase di Craxi sul cretinismo parlamentare fu interpretata all’epoca come un segno di autoritarismo, ma i decenni successivi hanno trasformato quella previsione in un affettuoso buffetto. Il Parlamento è stato svuotato di ogni potere e contenuto, a colpi di voti di fiducia e di maxi-emendamenti, nella costruzione di una classe parlamentare sempre più mediocre e priva di autorevolezza, fino ad arrivare all’ultima legislatura, quella 2013-2018, con tutti i principali leader (Matteo Renzi, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi) extra-parlamentari, nessuno di loro era deputato o senatore.
La centralità del Parlamento è stata sostituita dalla centralità dell’esecutivo e della personalità del premier, un processo non solo italiano. Ma oggi il governo non c’è, o meglio c’è il governo guidato da Paolo Gentiloni, invisibile agli occhi ma presente e in testa nei sondaggi di gradimento, e c’è un governo che il Quirinale sta cercando a fatica di mettere in piedi. Tutto fa immaginare che il prossimo governo e i futuri presidenti del Consiglio saranno politicamente molto più deboli dei loro predecessori, saranno costretti a trovarsi di volta in volta i voti in Parlamento necessari per governare. L’esecutivo diventa così materialmente imprescindibile, perché un Paese democratico, moderno, occidentale, non può restare neppure un istante senza governo (come dimostrano i meccanismi immediati di trasmissione del potere nei sistemi presidenziali in caso di impedimento del vertice), ma politicamente è evanescente, e in questo paradosso c’è l’ipotesi di scuola che Gentiloni possa scavallare da una legislatura all’altra.
In mezzo al marasma, è rimasta in piedi una sola istituzione, la presidenza della Repubblica. Il motore di riserva, chiamato ad accendersi quando l’aereo sta precipitando: così è successo per Oscar Luigi Scalfaro nel 1992-93 e per Giorgio Napolitano nel 2011, quando chiamò il professor Mario Monti a Palazzo Chigi, e nel 2013, quando la sua rielezione sbloccò una crisi che appariva insolubile. Sergio Mattarella è più sfortunato dei suoi predecessori. Non ha potuto contare finora neppure su un residuo di senso di responsabilità dei partiti e dei loro leader nevrotici, narcisisti, egocentrici, convinti di essere l’alfa e l’omega di ogni svolta politica. E così l’inquilino del Quirinale è stato rispettoso fino allo scrupolo della volontà degli elettori espressa il 4 marzo e dei tempi di scelta dei partiti, attento a non interferire nelle loro decisioni, ma anche a garantire al Paese un governo nella pienezza dei suoi poteri, eppure rischia di essere trascinato suo malgrado nella crisi del sistema e nell’incapacità di ritrovare un principio d’ordine istituzionale, nell’assenza della politica.
Nella crisi di sistema viene meno il partito che più di ogni altro lo ha incarnato, il Pd, così come nel 1993, al passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, venne giù il partito-architrave del cinquantennio precedente, la Dc. Perché in un partito del 30 o del 40 per cento possono, anzi, sono costrette a convivere personalità diverse e differenti strategie, ma in un partito elettoralmente così ristretto non sono più conciliabili. Nel 1995 gli ex democristiani si spaccarono tra i popolari, che andarono con il centrosinistra, i Ds e l’Ulivo di Romano Prodi, tra loro c’erano anche Mattarella e Dario Franceschini, e il Cdu di Rocco Buttiglione, che andò con il centrodestra, Berlusconi e la Lega. Così potrebbe succedere che il Pd attuale si spacchi tra il centro-destra a trazione leghista, Salvini e Giorgetti, e il Movimento 5 Stelle, verso il prossimo turno elettorale.
In una situazione, però, molto diversa dal passato. Della crisi di sistema fa parte, a pieno titolo, lo stato di dissoluzione in cui si trovano i partiti, i sindacati, i corpi intermedi che sono il nemico comune di Renzi, Di Maio e Salvini. Il primo maggio si è svolto senza sindacati, o quasi. Nei partiti la lotta politica tra capi-corrente è stata sostituita da quella tra i capi-hashtag, che snocciolano i numeri dei loro followers come un tempo si mettevano sul tavolo i pacchetti di tessere, anche in questo caso non mancano le anime morte, gli iscritti fantasma, sia pure virtuali. Tra i capi e la società non c’è più nulla, solo un pugno di seguaci nella rete dediti a insultare, criminalizzare, espellere i compagni di partito. I #senzadime che non capiscono perché molti elettori facciano #senzadiloro: cinque milioni di voti persi dal Pd tra il 2014 e il 2018, M5S che in Friuli in meno di due mesi passa da 169mila a 29mila elettori come voti di lista. E nella crisi istituzionale si rischia che a sostituire i partiti e i vecchi canali di mediazione restino i media, la tentazione di opinionisti e giornalisti non a orientare l’opinione pubblica, ma a sostituirsi a leader e partiti, nel vuoto.
Da una crisi di governo si può uscire con qualche mossa e rinuncia dettata da saggezza, per risolvere una crisi di sistema che va avanti da decenni serve un supplemento di fantasia, immaginazione, determinazione politica. Tutte virtù di cui il presidente della Repubblica è dotato in buona misura. Se c’è la buona volontà degli altri, s’intende. Altrimenti, qualsiasi sia la soluzione di breve periodo per la crisi di governo, la crisi di sistema è destinata ad aggravarsi sempre di più.---
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