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Questa sera partecipo a un interessante dibattito con Tommaso Nannicini (PD) e Maria Cecilia Guerra (LeU), introdotto da Filippo Taddei (PD). Dopo oltre sei anni di esperienza, posso immaginare che saranno protagonisti del dibattito alcuni evergreen. Voglio quindi, pro veritate, offrirvi una modica quantità di una moneta che nei dibattiti italiani non ha corso legale. La lira? No, i dati.
L’origine della crisi
Sicuramente uno dei temi affrontati sarà quello della produttività e della sua stasi, di cui mi sono occupati tante volte nel blog e nella letteratura scientifica. Come sapete, l’argomentone opposto in questo dibattito è quello secondo cui la crisi italiana non daterebbe dalla metà degli anni ’90 (inizio del percorso di ingresso nell’euro con aggancio all’Ecu), ma dagli anni ’80, o addirittura ’60, o dalla III guerra di indipendenza, o dal Triassico. Per vostra comodità, qui il grafico che riporta il Pil per ora lavorata in Italia e Germania, espresso in dollari costanti a PPP, e il rapporto fra le due serie...
Si vede bene che dagli anni ’70 fino alla seconda metà degli anni ’80 l’Italia tiene botta. Poi perde terreno durante il cosiddetto “SME credibile” (il periodo di tassi di cambio praticamente fissi che durò dal 1987 alla crisi del 1992), poi recupera dopo la svalutazione del 1992, e poi… lo vedete da voi! Dall’aggancio valutario (che avvenne nel 1997) in poi, la produttività italiana si ferma. Perché? Se me lo faranno dire, lo dirò fra un paio d’ore.
L’austerità era necessaria
I miei gentili interlocutori sono stati tutti montiani, anche quelli molto “di sinistra”: la tenuta dei conti era prioritaria, la sostenibilità del debito, ecc. ecc. Insomma: la canzoncina che oggi si intitola “le coperture”.
Andrebbe allora ricordato che un problema di tenuta dei conti in effetti non c’è mai stato. Nel 2011 il rapporto sulle finanze pubbliche nell’Eurozona indicava che l’Italia aveva avuto un momento di relativa vulnerabilità solo nel 2009:
mentre nel 2012, come in tutti gli anni successivi, il Fiscal sustainability reportconfermava che l’Italia non aveva mai avuto problemi di sostenibilità del debito, soprattutto non a lungo termine (mentre la Germania a lungo termine correva – e corre – rischi):
Solo l’Italia e la Lettonia non avevano un sustainability gap nel 2012 (in sintesi, non avevano la necessità di fare altre riforme), e la situazione per l’Italia è rimasta invariata. Del resto, che i conti pubblici fossero sostenibili lo ha detto poi anche Padoan.
I miei gentili interlocutori allora diranno che sì, forse oggi lo sono, ma il merito è loro (e di Monti, che loro hanno sponsorizzato). Solo che… c’è un problema! Il governo Monti ha sì ridotto il deficit, portandolo in linea col 3% di Maastricht, ma ha anche aumentato il debito, come vedete qui:
Con Monti il rapporto debito/Pil (linea arancione) passa dal 116% (fine 2011) al 129% (fine 2013) del Pil, mentre il deficit si riduce dal -3.5% -3% del Pil. Da cosa dipende questo mistero? Semplice! Dal fatto che il moltiplicatore della spesa pubblica è maggiore di uno, e quindi i tagli e gli incrementi di tasse di Monti hanno distrutto più Pil di quanto abbiano fatto risparmiare lo Stato.
Allora i miei gentili interlocutori diranno che lo sanno, ma che bisognava placare lo spread. Certo! Lo spread andava placato, ma farlo non costava tanti sacrifici, e infatti, come ci mostra il Sole 24 Ore, non sono state le riforme “chieste dai mercati”, come la Fornero, a placarlo, ma Draghi, quando ha detto che la Bce avrebbe garantito i debiti pubblici degli stati dell’Eurozona:
Sarebbe bastato dirlo prima per evitare l’ingiustizia degli esodati. Ma si vede che questa idea così semplice, ovvero che uno Stato garantisca il proprio debito, a Draghi (e ai miei interlocutori) prima non era venuta in mente…
Naturalmente, se la sostenibilità del debito pubblico non è un problema impellente, allora la cosa migliore da fare, invece di cercare di abbatterlo con immani e inutili sacrifici, è limitarsi a stabilizzarlo, come proponeva già all’epoca Riccardo Realfonzo, e come la Lega si propone di fare nell’immediato.
La Fornero era una riforma necessaria, rischiavamo la catastrofe…
Bè, le cose non stanno proprio così. Lo dimostra dati alla mano Felice Roberto Pizzuti, chiarendo quello che perfino io, che non sono un esperto del settore, sapevo, ovvero che la riforma Dini era stata più che sufficiente per riportare in equilibrio finanziario i conti. Basta guardare le proiezioni del rapporto fra spesa pensionistica e Pil:
Ah, naturalmente questo spiega perché il nostro debito è sostenibile a lungo termine. Non credete ai demagoghi che vi parlano di “emergenza conti pubblici” solo per distrarvi e sfilarvi soldi e diritti!
Un milione di posti di lavoro
…questa volta grazie al jobs act. Sappiamo che è una fake news. Per averne plastica dimostrazione, basta guardare il grafico degli occupati misurati in migliaia e in unità di lavoro equivalenti a un lavoro a tempo pieno:
Come vedete, quello che è aumentato, nel magico mondo del PD, è lo scarto fra gli occupati “statistici” (in blu) e quelli a tempo pieno (in rosso; i dati finiscono nel 2016 perché il sito dati.istat.it non pubblica ancora i dati del 2017). Il fatto che le unità di lavoro diminuiscano più degli occupati indica appunto la maggiore precarizzazione determinata da provvedimenti quali il jobs act. Per tornare alla situazione pre-crisi, invece di un milione di posti di lavoro part-time e precari, servirebbe circa un milione e mezzo di posti di lavoro a tempo pieno. Insomma, servirebbe vivere in un paese normale, che secondo me è un paese dove si definisce occupato chi guadagna abbastanza da mantenere una famiglia. L’Italia è stata così e può tornare a esserlo.---
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