Dal crollo delle immatricolazioni al costo del sottoutilizzo delle donne: viaggio in sette numeri nei guai del sistema iIalia, mentre i politici parlano di tutt’altro.
(di Fake news, tasse, pensioni, sicurezza, migranti, e pure canone Rai.Da che mondo e mondo in campagna elettorale si parla di tutto, ma soprattutto di quel che si può promettere al maggior numero di elettori – leggi: soldi in tasca, tutti e subito – per invogliargli a votare per questo o per quel candidato. Giusto o no, è legittimo e (fino a un certo punto) fisiologico. ) –
Noi che di voti non dobbiamo prenderne, invece, possiamo permetterci di parlare di alcuni problemi dimenticati dell’Italia. Quelli che richiedono tempi lunghi e soluzioni complesse. Quelli che non hanno ricette facili e soprattutto rischiano di rimanere sullo stomaco a qualcuno. Abbiamo scelto sette numeri – scovati nei rapporti di ricerca e nelle statistiche nazionali e continentali, non certo sulle prime pagine dei giornali – che in qualche modo rappresentassero questi problemi, da un diverso tipo di disoccupazione, al più grande degli sprechi italiani, da percorsi demografici che non tornano e strumenti di welfare che tutto dovrebbero essere fuorché irrisi. A nostro avviso, se se ne volessero occupare davvero, ce ne sarebbe per almeno tre legislature. Noi, per ora ci limitiamo a rendervene consapevoli. Sperando che qualcun altro perlomeno se li appunti sul taccuino:..
Il primo numero è 40 (per cento) e rappresenta la percentuale di disoccupazione giovanile italiana che non dipende dal ciclo economico. È la società di consulenza McKinsey a dirlo, e non è un affare banale. Anzi, a nostro avviso è uno degli enigmi meglio custoditi d’Italia. Perché se le crisi non potevamo di certo evitarla, o prenderla con filosofia, così non è per quella che gli economisti chiamano componente strutturale, che rimane lì pure quando le cose vanno bene. Per qualcuno, che va sempre bene, è colpa delle troppe tasse. Per altri, invece, è questione di scarsa corrispondenza tra università e studenti e della lunga, lunghissima transizione tra scuola e lavoro. Secondo voi?
Intanto che ci pensate, eccovi il secondo numero. È 65mila e corrisponde al calo delle immatricolazioni universitarie tra il 2000 e il 2015. Anche in questo caso, c’è poco da stare allegri. Perché quello italiano è un trend che non trova corrispondenza in altri contesti, dove invece il sapere è la chiave di tutto. In Cina, ad esempio, ci sono 8 milioni di laureati in più ogni anno. Otto. Milioni. E pure con preparazione ottima e voti altissimi. Da noi, nel nostro mondo all’incontrario, no., il sapere è qualcosa di inutile, da cui stare alla larga. Pessimo segnale davvero. E trend fondamentale da invertire.
Il terzo numero è 35, come la percentuale di lavoratori italiani impiegato in un settore non correlato ai propri studi ed è un numero che fa il paio con il 12% di lavoratori che sono sovraqualificati rispetto alla mansione che svolgono. Non sono numeri banali. Fare un lavoro diverso da quello per cui si è studiato può essere stimolante, ma solo se non diventa una necessità, o peggio ancora se non è figlio di una sotto qualificazione. In tal caso diventa un enorme fattore di frustrazione, abbastanza per comprare un biglietto di sola andata per un Paese straniero. O per decidere, di fronte a questa prospettiva, di smettere di studiare.
Il quarto numero è il più alto di tutti e, ahinoi, rappresenta il più alto costo della sottoutilizzazione del capitale umano in Italia: quello femminile. L’ha calcolato Eurofund in un suo recente rapporto ed è pari a 88 miliardi di euro l’anno. Ah, curiosità: è il più alto in Europa, perché noi in Italia siamo quelli che il capitale umano femminile lo usiamo peggio di tutti. Perché lo consideriamo una riserva indiana, una quota da salvare, nel migliore dei casi, e non siamo ancora stati capaci di valorizzarlo al meglio nel nostro tessuto produttivo. Nè a livello di mansioni, né in relazione allo stipendio.
Il quinto numero è 89, ed è il numero di investimenti diretti esteri realizzati in Italia nel 2016. Molti di più rispetto al 2015. Molti di meno rispetto ai 1063 della Germania, nel medesimo anno. E forse è proprio quello che ci manca, in Italia, per trattenere i nostri cervelli in fuga e per mettere a valore il meglio del capitale umano che abbiamo formato: un bell’afflusso di imprese estere che portino tecnologia, innovazione, domanda di saperi qualificati. Domanda: qualcuno ha qualche idea su come fare? Pare che un fisco migliore, una giustizia più veloce, una ricerca universitaria di base molto ben finanziata aiutino, e una burocrazia snella ed efficiente aiutino, in questo senso.
A proposito di burocrazia: il sesto numero, 48,1, è l’età media dei dipendenti della pubblica amministrazione italiana, quasi cinque mesi più alta rispetto al 2007. Effetti collaterali di quel blocco del turnover, tanto necessario a tamponare la spesa pubblica, quanto suicida nel tarpare ogni velleità di innovare almeno un po’ la macchina pubblica. Ora, pare, ci sia una finestra per tornare ad assumere. Che facciamo? Continuiamo a metterci gli amici degli amici, senza cambiare il modello organizzativo, o decidiamo di mettere nella pancia del burosauro un po’ di giovani e brillanti esperti delle tecnologie digitali?
Rimane un numero ed è il più controverso di tutti. Sono i 1300 euro (circa) a cui ammonta il reddito minimo garantito mensile che prende un lavoratore che ha perso la propria occupazione in Francia, Germania, Belgio, Austria, Regno Unito, Irlanda, assieme alle politiche attive e di formazione per aiutarlo a trovarne uno nuovo. Sono tutti Paesi che hanno un welfare meno costoso del nostro e un debito pubblico più basso del nostro. Sono tutti Paesi in cui non ci sono lavoratori ipergarantiti e lavoratori senza alcuna tutela, senza buchi nello Stato sociale, in cui ciascuno è tutelato. Sono tutti Paesi che hanno rispettato la direttiva europea del 1992 che imponeva una misura universale di sostegno al reddito agli Stati membri...
Gli unici assenti siamo noi e la Grecia. Sarebbe il caso di parlare pure di questo...
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