Ricevo e posto l'articolo del Compagno Gianni Favaro. Chi volesse essere sempre informato, clicca sul sito:
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Il mio P.C.I.
Il 21 gennaio di quest’anno sarà il 97°anniversario della fondazione del P.C.d’I., mentre il 3 febbraio sarà il 27° del suo scioglimento deciso dalla maggioranza dei delegati del XX Congresso di Rimini.
In questi giorni c’è già un fiorire di incontri e manifestazioni per celebrare il 21 gennaio. È giusto tenere vivo il ricordo di una forza politica comunista popolare e di massa che ha inciso tantissimo sulle scelte del nostro Paese e sulle coscienze di moltissimi italiani.
Forse però sarebbe più utile evitare, nel ricordare quanto era grande il PCI, di omettere che da 27 anni quel partito non c’è più.
Il PCd’I nacque nel 1921 sull’onda del successo della Rivoluzione d’Ottobre Russa, sulla spinta rivoluzionaria del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e in critica alle posizioni massimaliste del PSI, e morì nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica e sotto i colpi della reazione capitalista iniziata negli anni ottanta dalle politiche liberiste della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Usa...
Per cercare di comprendere cosa ha portato il più grande partito comunista occidentale al suo scioglimento non sono sufficienti le categorie del tradimento dei gruppi dirigenti bisogna, secondo me, scavare molto più a fondo nel percorso politico e nel quadro internazionale e nazionale in cui quel partito si è trovato ad agire.
Nel PCI ho militato dal 1971, quando a 16 anni mi sono iscritto alla FGCI, fino al suo scioglimento. A Rimini, quel 3 febbraio di 27 anni fa, come delegato dalla federazione di Torino, votai contro lo scioglimento e insieme ad altri (pochi, troppo pochi) delegati, uscimmo dalla sala dove si svolgeva il congresso e demmo vita al Movimento per la Rifondazione Comunista.
Sono stato testimone diretto, come militante e dirigente comunista, di tutta la parabola finale del Partito.
In questi anni mi sono spesso chiesto se sarebbe stato possibile evitare tutto un percorso che ha portato alla sua progressiva scomparsa.
Oggi guardando al Pd o a Mpd non trovo in quei partiti e in quei dirigenti nessuna connessione con la storia e i valori del PCI; veramente fatico persino a trovare una loro connessione anche con la storia e i valori della socialdemocrazia occidentale. Cos’è successo? Eppure una parte del gruppo dirigente del Pd o di Mpd è interno al percorso del PCI, basti pensare a Giorgio Napolitano o a Massimo D’Alema.
Per capire occorre fare qualche passo indietro. Negli anni ’60 e ’70 del Novecento il movimento antimperialista e il blocco dei paesi socialisti erano all’apice della spinta nella lotta contro l’altro campo, quello capitalista e imperialista. Il Vietnam stava vincendo, molti movimenti anticoloniali in Africa o in Asia ottenevano successi, in Italia il movimento operaio guidato dal PCI assumeva una forza imponente e conquistava spazi di democrazia e diritti sociali. In Europa, prima la Grecia poi il Portogallo e la Spagna, si liberavano dalla dittatura fascista. In quel contesto il PCI, con i suoi milioni di iscritti e voti, rappresentava una forza invincibile e inarrestabile. Naturalmente l’avversario di classe, pur colpito, reagì, ad esempio in Cile (e in tutta l’America Latina), con colpi di stato o con strategie corruttive; in Afganistan (e in tutta quell’area asiatica), sostenendo e finanziando il fondamentalismo islamico in funzione antisovietica; nell’Europa dell’Est sostenendo e finanziando movimenti anticomunisti come Solidarnosh.
In questo quadro di reazione il PCI lanciò una proposta di unità (sui grandi temi politico-sociali) con le forze cattoliche, proposta che poi sfociò nel “compromesso storico” con la DC, tutto ciò nella speranza da un lato di “introdurre elementi di socialismo” nelle politiche italiane, dall’altro di bloccare la strategia della tensione e le tendenze golpiste interne ai partiti e gruppi neofascisti filo occidentali e Nato.
Fu un errore?
Certamente allora non c’erano molte altre strade percorribili senza il rischio di trascinare anche l’Italia in una situazione di guerra civile. In questo senso le azioni terroristiche delle BR e di Prima Linea e la reazione repressiva dello Stato, con il rischio concreto di un golpe militare, indussero il PCI ad assumere politiche più concilianti e unitarie verso i partiti di governo.
Volendo indicare però il punto di svolta che portò il PCI e il suo gruppo dirigente al declino si può analizzare quello che successe nel 1980 con i 35 giorni della lotta dei lavoratori contro la Fiat.
Il 10 settembre 1980 la direzione Fiat, a freddo, annunciò 14.469 licenziamenti: fu, ma lo si capì molto dopo, un atto studiato e voluto dal padronato per scardinare il potere contrattuale del sindacato e, soprattutto, del Partito della classe operaia. Gli operai reagirono immediatamente e in modo spontaneo occuparono gli stabilimenti e per 35 giorni presero possesso delle fabbriche. Il PCI, stretto tra l’esigenza di sostenere le lotte operaie e quella di cercare una mediazione, si trovò suo malgrado di fronte a un bivio. L’intransigenza della parte padronale, studiata e ispirata dalle politiche thatcheriane e reaganiane di totale chiusura alle mediazioni o compensazioni, costrinse il sindacato e il partito a scegliere tra proseguire e allargare a tutto il mondo del lavoro la lotta fino allo scontro finale, oppure accettare subito il diktat confindustriale in una logica socialdemocratica. Il gruppo dirigente sindacale e del PCI tentennò, si divise, ebbe un atteggiamento ambiguo: da un lato il sostegno formale alla lotta, soprattutto da parte della sua base di militanti, e dall’altro lato il tentativo di muovere il Governo per convincere la Fiat a trattare.
L’allargamento non ci fu per timore della reazione e il Governo appoggiò in pieno la direzione Fiat. Infatti, dopo la marcia dei “quarantamila” capi Fiat, il Governo mobiliterà polizia e carabinieri intimando di sciogliere i picchetti con la minaccia di usare la forza. Gli operai resisteranno ancora, fino all’annuncio del raggiunto accordo al tavolo del governo tra sindacati e Fiat: i padroni hanno vinto. Il movimento operaio in Italia da quel giorno non sarà più lo stesso, non avrà più la forza di vincere. Progressivamente il padronato riconquisterà, sia in termini di produzione, sia in termini di riduzione del salario e persino in termini di diritto del lavoro, tutto il terreno perso negli anni ’60 e ’70.
Il PCI uscì da quella vicenda segnato, il rapporto con i lavoratori cambiò e nel partito si fece strada sempre con più forza l’idea che l’unica via percorribile per un partito comunista occidentale fosse interna al sistema democratico borghese, sostituendo la prospettiva rivoluzionaria di cambiamento radicale della società capitalista con una linea e prospettiva di tipo socialdemocratica che puntava al governo delle istituzioni.
La sconfitta del movimento operaio dopo i 35 giorni della Fiat rese ancora più evidente che con la lotta non si incideva più sulla modifica delle condizioni di lavoro, del salario e sulle conquiste sociali.
Guardato da questo punto di vista, il percorso del PCI che ha portato alla “Bolognina” di Occhetto e poi allo scioglimento per dare vita al PDS è del tutto trasparente e conseguente. Più o meno è successo lo stesso ai partiti comunisti occidentali (con qualche rara eccezione, penso al Portogallo e alla Grecia). D’altronde si trattò solo di un cambio di nome da PCI a PDS, tutto il resto per qualche tempo restò tale e quale a prima dello scioglimento. Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 tutto cambiò e il gruppo dirigente del PCI si adeguò. Fu un errore gravissimo e oggi possiamo valutarne appieno la gravità e le conseguenze per tutti i lavoratori e gli italiani.
L’unico evento che rappresentò la vera novità in quel quadro di reazione capitalista fu la nascita del Partito della Rifondazione Comunista: evento per nulla scontato, atto di resistenza comunista, che però già dalla sua nascita portava con sé i germi del disfacimento.
Bisogna rispettare la storia del PCI e, ricordando le grandi cose che ha fatto, dirci che quella storia non è più oggi ripetibile. Chi si nasconde dietro la sua storia e la sua grandezza fa come colui che si copre della pelliccia del leone e prova a spaventare le iene.
Il PCI è morto il 3 febbraio 1991, ma non è morto il comunismo, anzi, proprio in questi anni di trionfo del capitalismo globalizzato, di diritti calpestati, di aumento delle povertà, c’è bisogno, ancora e di più, del partito comunista, nuovo, perché collegato al presente e non al passato, radicato, perché fondato sulla critica marxista e sul materialismo dialettico, operaio, perché convinto che la classe operaia (che esiste) sarà quella che libererà l’umanità dal giogo capitalista, popolare, perché espressione e rappresentanza del popolo,nazionale e internazionalista, perché l’Italia guidi la pace e la prosperità di tutto il mondo, ambientalista, perché finisca lo sfruttamento a fini economici del nostro mondo.
Un PCI così non si costruisce attorno a liste elettorali strumentali, non si costruisce nemmeno con ritivoodoo per far rinascere ciò che è morto. Si può costruire insieme, la storia ci guida: ma siamo noi, oggi, adesso, che dobbiamo interpretarla e organizzarci.
ciao ecco il mio ultimo articolo. http://www.tempipostmoderni.it/il-mio-p-c-i/
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