di Marco Travaglio | 19 ottobre 2017
Con tutti questi furti di democrazia e di sovranità, più si va a votare e meglio è. Ma, per parlare di democrazia e di sovranità, votare non basta. Altrimenti anche la Cuba dei Castro, la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sarebbero modelli di libertà. Votare significa scegliere e scegliere significa sapere, cioè conoscere tutte le opzioni. Non è il caso dei referendum consultivi indetti per domenica in Lombardia e in Veneto al grido di “più autonomia”. Noi, che siamo per abolire le regioni (visto come gestiscono sanità e trasporti dalla Lombardia alla Puglia alla Sicilia) e passare a un federalismo municipale, di autonomia ne vorremmo meno. Ora, i referendum consultivi sono legittimi e i quesiti riguardano un meccanismo previsto dalla Costituzione (art. 116 modificato nel 2001 dalla riforma del Titolo V targata centrosinistra)...
Ma inquinati da una campagna elettorale piena di balle che spacca in due l’elettorato lombardo-veneto: una maggioranza di indifferenti-ignari che non andranno a votare; e una minoranza di disinformati che andranno a votare senza sapere per cosa votano o – peggio – convinti di votare per qualcosa che non esiste. Nei referendum si sceglie fra Sì e No. Ma qui nessuno – a parte Rifondazione e piccoli movimenti locali – si batte per il No: parlano solo quelli del Sì e chi è contrario si astiene. L’esito è scontato, anche se il peso politico della consultazione dipende dal numero dei votanti.
Cosa chiede il Sì. I quesiti di Lombardia e Veneto sono diversi, ma chiedono la stessa cosa: più autonomia, cioè più poteri e più risorse pubbliche alle due Regioni su una ventina di materie “concorrenti” e “negoziabili” fra Stato ed enti territoriali. E cioè: norme generali sull’istruzione, giudici di pace, rapporti internazionali, protezione civile, commercio con l’estero, distribuzione dell’energia, casse di risparmio, tutela dell’ambiente, beni culturali, sicurezza sul lavoro e così via.
Chi sta col Sì. Il partito promotore è la Lega Nord, a cui si sono accodati FI (ma non la Meloni, anche se i Fratelli d’Italia nordisti sono per il Sì), molti amministratori locali del Pd (come i sindaci di Milano, Beppe Sala, e di Bergamo, Giorgio Gori) e parte dei 5Stelle (che hanno formulato il quesito lombardo, eliminando le asprezze indipendentiste di quello leghista).
Cosa dice il Sì. La campagna elettorale la fa solo la Lega, che governa le due Regioni con Maroni e Zaia. E, soprattutto col primo, racconta frottole. Il sito della Regione Lombardia promette “un’ancora più ampia competenza in materia di sicurezza, immigrazione e ordine pubblico”.
Peccato che tutte e tre le funzioni continueranno a far capo al governo centrale. Molti Comuni leghisti promettono competenze “simili a quelle delle regioni a statuto speciale, con meno tasse”: ma sul fisco non cambierà nulla, perché la Costituzione non ammette deroghe, infatti la Consulta ha bocciato i quesiti veneti in materia tributaria. Infine si ciurla nel manico sull’ammontare del “residuo fiscale”, cioè della differenza tra le tasse pagate dai cittadini delle singole Regioni allo Stato e la spesa pubblica destinata all’amministrazione centrale del territorio (servizi pubblici e trasferimenti di fondi). Come spiega Paolo Balduzzi su lavoce.info, i 57 o 52 miliardi annui millantati da Maroni per la Lombardia sono totalmente campati per aria: il dato reale è circa la metà. E comunque, se lo Stato concede l’autonomia alla Regione su una quota proporzionata alle funzioni trasferite, smette di spendere le relative risorse, dunque il residuo fiscale resta identico a prima.
Cosa cambia dopo. Non essendo giuridicamente vincolante, il referendum non cambia nulla. Ciò che invece è giuridicamente vincolante è il voto di un Consiglio regionale che incarichi la sua giunta di far scattare l’opzione prevista dall’art. 116: aprire una trattativa col governo per trasferire funzioni oggi in capo allo Stato. Cosa che le Regioni a statuto ordinario possono fare dal 2001 con la certezza di ottenere ciò che chiedono: basta inviare una lettera a Palazzo Chigi e poi trattare, senza bisogno di referendum. Anzi, se domenica l’affluenza fosse bassa, i referendum potrebbero persino danneggiare la causa autonomista che i proponenti vogliono agevolare: lunedì il governo potrebbe infischiarsi del risultato e lasciare Maroni e Zaia con un pugno di mosche. Cosa che invece non potrà fare con l’Emilia Romagna che, anziché puntare sull’arma propagandistica e costosa del referendum, ha seguito la via maestra (e gratuita): voto consiliare e lettera del governatore Bonaccini (Pd) al governo (con l’incredibile no della Lega, che ha buttato la palla in tribuna inventandosi la secessione dell’Emilia dalla Romagna, o viceversa).
Costi e benefici. In Lombardia si sperimenta il voto elettronico: nei seggi gli elettori digiteranno Sì, o No o bianca (nulla non si può) su 24 mila tabletappositamente acquistati dalla giunta Maroni. In Veneto invece si vota con le tradizionali matite e schede di carta. Così in Lombardia un referendum praticamente inutile, e forse anche dannoso, costerà pure ai contribuenti 50 milioni di euro; in Veneto, 14. Il tutto per “spingere” una richiesta di maggior autonomia che Maroni e Zaia potevano concedere alle loro Regioni dal 2008 al 2011, quando erano al governo nazionale, rispettivamente come ministri dell’Interno e dell’Agricoltura. Ora, delle due l’una: o hanno dormito per tre anni; oppure il referendum con l’autonomia non c’entra nulla, ma c’entra molto con i regolamenti di conti interni fra loro e Salvini, e con le prossime elezioni politiche e regionali. Tutto legittimo, per carità, a parte i 64 milioni buttati. Ma basta saperlo.
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