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sabato 29 aprile 2017

da I Diavoli - Il paziente inglese Gran Bretagna: tra elezioni, Brexit e Labour moribondo.


da I Diavoli 

«La Brexit significa Brexit» e «non si torna indietro», per la premier britannica Theresa May questo è sicuro. Riluttante fino all'ultimo, l'ex ragazza diligente di Eastbourne arrivata dalle contee di Inghilterra fino 
al numero 10 di Downing Street, si è risparmiata l'ottava smentita di fila in pubblico.
Il 18 aprile ha annunciato: la Gran Bretagna andrà ad elezioni anticipate, ovvero prima che il divorzio di Londra da Bruxelles sia consumato. L'appuntamento è fissato per l'8 giugno.
Il leit-motiv è «stabilità e certezze», i discorsi invocano «una Gran Bretagna forte», la retorica sigilla ogni dubbio e appiattisce qualsiasi opposizione: «La Brexit è nell'interesse nazionale».
La premier esorta gli inglesi: «Datemi forza», mentre approfitta di un Labour moribondo e diviso, e inveisce contro Jeremy Corbyn, incorniciato in una narrazione che lo impone all'opinione pubblica come «debole e fallimentare». Il diretto interessato rifiuta questa immagine di perdente annunciato: «L'esito delle elezioni non è scontato come si sente dai media e dall'establishment corrotto»....



Hard o soft Brexit?
La Brexit si farà, nessuno sembra essere titubante in merito. Il punto però è come: sarà "hard" o "soft"? Quali sono le condizioni?
Al di là dei toni trionfalistici di May, in ballo ci sono le incertezze sul futuro, le disuguaglianze sociali su cui la premier glissa, il famoso «single market» che sta tanto a cuore alla City e che tiene le banche con il fiato sospeso, il buco nel bilancio comunitario che si allargherebbe entro la fine dei due anni previsti per i negoziati.
Finora, tra le righe delle vaghe dichiarazioni della premier, si leggevano solo messaggi inquietanti rispetto alla libera circolazione dei cittadini e al benservito al mercato europeo.


Il piano di transizione sulla rotta di una Brexit "alleggerita"
Al tavolo dei negoziatori britannici, presieduto dal cosiddetto "uomo Brexit", ovvero David Davis - scrive il quotidiano conservatore Telegraph - è allo studio un piano di accordo.
L'idea sarebbe quella di un piano transitorio a due velocità: da un lato, Londra continuerebbe a pagare la sua quota Ue fino al 2020; dall'altro, in questa fase, godrebbe di condizioni favorevoli rispetto al mercato unico. In questo modo, l'uscita dal «single market» tanto caro al business della City e il divorzio dai 28 non sarebbe contemporaneo. Inoltre, troverebbe spazio anche la tutela dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito.
Il prezzo da pagare all'Europa per la Gran Bretagna ammonterebbe a 17 miliardi di euro, sempre che ad ostruire la strada della May non si frapponga il bastone tedesco.
Intanto, senza perdere tempo, la premier ha ricevuto a Downing Street il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e il capo negoziatore di Bruxelles, Michel Barnier. Perché da discutere ci sono anche le ripercussioni che la Brexit avrebbe sull'equilibrio economico (e politico) tra Ulster e Repubblica irlandese.
È, dunque, in questo contesto che le elezioni assumono un ruolo cruciale, perché - fanno sapere dalla Commissione europea per bocca del portavoce Margaritis Schinas - «il vero negoziato politico comincerà dopo le elezioni dell'8 giugno».


Perché al voto proprio adesso
May vuole blindare un copione che sembra già scritto: Brexit in tasca, maggioranza storica e assoluta di seggi (400 su 650 ai Comuni) - che le staccherebbe di dosso quelle etichette di leader grigia, vaga e responsabile di aver praticamente spezzato due unioni (Ue e UK) - governo per altri cinque anni. Lo raccontano i numeri.
Stando ai dati diffusi da Yougov sulle intenzioni di voto, i conservatori (Tories) sarebbero al 48% dei consensi, contro un debolissimo Labour inchiodato al 24%, mentre Libdem e Ukip si aggiudicherebbero rispettivamente il 12% e il 7%.
Nonostante i sondaggi, May resta prudente: strategia elettorale e physique du rôle impongono che non si esulti mai troppo presto. «Questa è un'elezione in cui ogni voto conta e in cui ogni singolo voto ai candidati Conservatori sarà un voto che darà forza alla mia mano nei negoziati per la Brexit», ha detto in Galles, lanciando frecciate a Corbyn e scagliandosi contro «una coalizione del caos guidata da leader debole e fallimentare».


I dolori del Labour
È una storia triste, quella del Labour. È stata di lotta e di conquiste, ma oggi è di fughe, di liti, di rotture.
Il partito ha visto la sua base elettorale sgretolarsi in meno di un anno. Ha perso 26 mila iscritti, passando dai 554 mila di luglio scorso ai 528 mila a marzo. La Brexit ha diviso ciò che Corbyn ha provato maldestramente a unire negli ultimi mesi, resistendo a chi voleva disarcionarlo.
In tanti sono delusi dal suo comportamento riguardo all'uscita dall'Ue e dal mercato unico: troppo distante prima del referendum, troppo autoritario e confuso dopo con i deputati per l'attivazione dell'articolo 50.
Se alla fine di febbraio Corbyn diceva ai suoi: «Non è tempo di ritirarci, fuggire, o arrenderci», dopo aver perso nel voto del nord d'Inghilterra i consensi di Copeland, storica roccaforte laburista, oggi più che mai continua a cercare di intercettare quel malcontento che ha portato in tanti, probabilmente anche fedeli al Labour, a votare per la Brexit.
Si lancia in campagna elettorale, promette di «offrire un'alternativa» ai Tories. Se la prende con «l'agenda economica fallimentare [del governo May, ndr], che ha causato molti problemi alla sanità, lasciato le scuole senza fondi e molte persone nell'incertezza». Si rivolge direttamente al «popolo», di cui - dice - «rispetta la volontà» di divorziare da Bruxelles. Contro un «primo ministro che non è più credibile», è pronto a «ridare speranza e opportunità economiche a tutti».
Evoca la rabbia anti-establishment e aizza «il popolo»: «Metteremo la ricchezza nascosta nei paradisi fiscali nelle mani del popolo della Gran Bretagna, che se l'è guadagnata. In questa elezione il Labour guiderà il movimento del cambiamento. Costruiremo una nuova economia, degna del XXI secolo, e costruiremo un paese per i molti e non per i pochi».
«È arrivato il tempo per le nostre politiche», tuona. O forse è arrivata l'ora di ripensare il partito, mentre nel resto d'Europa si consuma il fallimento dei partiti socialisti che sono auto-implosi sull'austerity.


***


Della working class che sapeva "tenere", non è rimasto niente. L'orgogliosa appartenenza di classe è sprofondata in un abisso di solitudine. Le pratiche di resistenza collettiva sono infrante. E così, anche le storie devono cambiare.


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