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giovedì 9 febbraio 2017

Maurizio Blondet - “LA VITA E’ UN RISCHIO, RAGAZZI” (REPLICA PER SNOWFLAKES)

“LA VITA E’ UN RISCHIO, RAGAZZI” (REPLICA PER SNOWFLAKES):

 http://www.maurizioblondet.it/lettera-agli-snowflakes-perche-non-si-suicidino/

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Un lettore a  proposito del suicida  trentenne: “Non sono riuscito a trovare “cristiana pietà” nel suo articolo, evidentemente mi è sfuggita, se può segnalarmela, grazie”.  Un altro: “Ai giovani bisogna voler bene.  Lei, caro Blondet, non sembra amarli”. 
Al primo rispondo: la  “cristiana pietà” per Michele bisognava  averla prima.  Adesso non serve. E’ solo sentimentalismo,  una delle  piaghe collettive italiane. Lo dimostra il secondo lettore: “Lei non sembra amare i giovani”.   Naturalmente, per  “amare i giovani” in Italia bisogna dirgli che sì, che hanno ragione, mantenerli infantili, compatirli, accarezzarli. Se  li si sgrida e li si educa  – a trent’anni   non li si tratta da adulti –   “non li si ama”.   E’  la “misericordia”  di manica larga, alla papa Francesco,  sotto  la quale c’è una vera cattiveria e una vera indifferenza  per il  miglioramento dei giovani.  Uno dei motivi profondi della nostra arretratezza. 
Quindi, su suggerimento di un terzo lettore, riposto un articolo che ho scritto nel gennaio 2008 .  Sperando che possa rispondere ai pietosi  che “amano i giovani”. -------------
…….Ricevo l’ennesima mail che, a proposito dell’emergenza-monnezza  a Napoli, mi informa di quanto siano pericolosi gli inceneritori e termovalorizzatori.  Sono lettere piene di dati tecnici, sono «ragionevoli», o almeno raziocinanti: gli inceneritori hanno un bilancio energetico negativo, emettono diossina, anch’essi producono rifiuti, chi abita vicino si ammala di cancro, tutto ciò è comprovato dal rapporto che allego e che la prego di leggere…
Ragazzi, lo so. Volete che non lo sappia?.....

Anzi sono convinto, come Woody Allen, che «la vita è cancerogena».
Letteralmente vero: la vita è il primo fattore predisponente al tumore.
Viene prima del fumo e dell’esposizione a sostanze chimiche.
Se non si è vivi, si è esenti dal cancro.
Si può dire ancora di peggio: la vita è il massimo fattore di rischio.
E che rischio, ragazzi: mortalità 100%. Molto più della peste bubbonica, della guerra e di ogni altra catastrofe. Questo paradosso – a questo servono i paradossi – serve a rivelare ad absurdum cosa nasconde questa voglia di sicurezza assoluta, di assoluta sanità ecologico-medica e assicurativo-previdenziale: un’inconsapevole volontà di morte.

E’ la pulsione di morte collettiva che possiede la nostra società intera, la società dell’uomo-massa. Spiace dirlo a quei lettori raziocinanti e cortesi, tutt’altro che cafoni: ma il loro è il tipico modo di essere dell’uomo-massa.  Dell’uomo per cui vivere è «essere quello che già è».
Del bambino viziato dalla storia, venuto in un mondo fatto di sicurezze duramente conquistate dai nostri padri ed avi, e che dà per scontate, credendo addirittura di averne «diritto». E che, per questo, sta distruggendo proprio le condizioni della vita sicura, ossia della civiltà. Questi raziocinanti vivono in una sorta di irrealismo, che fa piangere.
Quasi mai la decisione politica è fra un bene e un male – allora sarebbe facilissima – né fra un «male minore» ed uno maggiore.
Ogni decisione presa per la collettività ha le sue contro-indicazioni.
Sia un nuovo tratto d’autostrada, una ferrovia, una qualunque infrastruttura, c’è qualcuno che ne viene danneggiato. Che viene espropriato di terreni, che perde il silenzio in casa sua o qualche comodità. Per vantaggi ipotetici o che non lo riguardano.
Ogni decisione politica contiene un rischio e un «contro».
Il vantaggio che promette può non realizzarsi, il calcolo può rivelarsi sbagliato. Scegliere fra armamento e disarmo, scegliere tra tassare i salari o i consumi, scegliere l’imposizione diretta o indiretta, scegliere se dare risorse più alle pensioni o alla ricerca, comporta il rischio di errore – anche nell’ipotesi dei politici più onesti e responsabili. E’ il rischio inerente alla vita.
Ma il rischio peggiore sono i politici disonesti e irresponsabili, che l’uomo-massa vota perché lo adulano nei suoi vizi.
L’uomo-massa non esisteva nel ‘300 o nel ‘500. E perché?
Perché la vita era fatta, per il tipo d’uomo che oggi è uomo-massa, di limiti e restrizioni. 
Vivere era soffrire e mancare del necessario, e soprattutto di ogni sicurezza.
Provate a mettervi nei panni di un contadino del ‘300.
Se era così fortunato da possedere una mucca, la mungeva con la coscienza assillante che quel latte era tutto il suo cibo per sé e la sua famiglia, e che se la mucca si ammalava non avrebbe avuto niente da mangiare. Né un’assistenza sociale a cui rivolgersi, né contributi europei a compenso della perdita. Una grandinata, una ferita del capofamiglia, significava lo spettro della mendicità.
Un’appendicite era la morte nel 50% dei casi. Un mal di denti comportava un’estrazione fatta da un cavadenti alla fiera, senza anestesia e senza asepsi, con ascesso in corso.
Una bocca sdentata verso i 30 anni era la regola, si imparava a biascicare il pane duro con le gengive, e se ne ringraziava Dio. Il sacrificarsi per i familiari era anch’essa la norma, fino ad ingobbirsi e a deformare il corpo nella fatica, abituati al dolore e alle sciagure.
Il parto portava a morte spessissimo giovani spose sedicenni.  I bambini morivano altrettanto spesso nei primi mesi, falciati da malattie gastro-intestinali oggi scomparse, da cadute nei pozzi, avvelenamenti accidentali da granaglie infette da funghi e muffe, scrofola e rachitismo, cretinismo da carenza di iodio erano quasi la norma nell’Appennino e nelle Alpi.
La vita era tutta rischio, penuria, sofferenza e sacrificio.

E non si creda che i nobili vivessero meglio: magari si circondavano di lusso, ma questo non coincideva con la comodità. Il raso e i broccati coprivano pancacci, i velluti coprivano eczemi, pidocchi, ferite di guerra mal rimarginate e fratture scomposte, con cui si doveva comunque andare a cavallo. Ce n’era abbastanza per chiudersi in casa e aspettare, sul giaciglio di foglie, la morte liberatrice.  Ma quegli uomini non lo fecero.
Da quella durezza appresero che non potevano permettersi di essere uomini-massa, cui tutto era dovuto per «diritto».
Appresero che se non si fossero occupati loro di sopravvivere e di migliorare la natura attorno a sé, nessun ministero competente l’avrebbe fatto al loro posto.  E dissodarono pietraie, trasformarono foreste in campi, s’imbarcarono su trabiccoli, vissero fra l’afrore di cavalli e di mandrie, spesso dormendo con le bestie, si fecero strumenti di legno e di ferro, mulini a vento e ad acqua, si diedero leggi, si diedero persino chiese ed arte.
Appresero che ogni miglioramento della vita comportava contro-indicazioni, e che queste andavano affrontate e sopportate, per migliorare e crescere.  Questo è durato in tempi ancora recenti.
L’ammiraglio Nelson vinse le sue battaglie in condizioni fisiche che oggi l’avrebbero reso titolare di pensione d’invalidità con diritto all’accompagnatore: senza un occhio, senza un braccio, roso da mille malattie.
Nelson. Senza un braccio e senza un occhio,   così  guardava  al cannocchiale.  Non si sentiva un grande invalido con diritto alla pensione INAIL. 
Le sue ciurme, scatenate alle sartie e alla sciabola, avevano spesso gambe di legno e uncini al posto delle mani e bende su occhi cavati.  Equipaggi di invalidi senza pensione.
A Londra nell‘800 giravano un milione e mezzi di cavalli, si raccoglievano ogni giorno tonnellate di sterco equino, gli incidenti di traffico con le carrozze provocavano un’altissima mortalità.
Per questo furono inventate le ferrovie, e il signor McAdam escogitò la strada con ghiaia, futura strada asfaltata.
Le truppe di Napoleone andarono da Parigi a Mosca «a piedi», e a piedi tornarono, quelli che sopravvissero (uno su cinque), su piedi congelati.
La medicina militare fece enormi passi avanti sulla pelle di quei soldati, mutilati e feriti.
E i primi piloti d’aereo? Grazie a loro masse di turisti di massa partono per Le Maldive e considerano un’improbabile sciagura il morirci. Ma solo perché, nel primo ‘900, i piloti morirono sulle loro macchine nel 60% dei casi, e a forza di rischiare appresero un sacco di cose sul volo sicuro.
Ai tempi di Roma, 35 navi su cento naufragavano, non tornavano in porto. Pensate che non si navigasse? Si navigava perdutamente, accanitamente, per avidità e per guerra; «Navigare necesse est, vivere non necesse», disse Cesare.  Per raggiungere una certa sicurezza si dovettero aspettare nuove velature e nuovi armamenti, 15 secoli dopo.

Così, mi fa un po’ piangere ricevere l’ennesima lettera di un lettore che mi informa di quanto siano pericolose le centrali nucleari, di quanto sia irrisolto il «problema delle scorie» radioattive.
E ancor più fa piangere che lo scrivente sia, qualche volta, un ingegnere.
Ingegneri?  Grande categoria storica, che pena vederla scesa così in basso, così tremebonda. Cosa apprendeva l’ingegnere al Politecnico?
Formule matematiche, scienza dei materiali, resistenze, fisica avanzata? No, questi erano solo gli strumenti, non era questo l’essenziale. L’ingegnere non era un teorico, era un pratico.
Il suo compito e mestiere era la «gestione del rischio».
Nessuno meglio dell’ingegnere sapeva che il rischio era ineliminabile, e che tutta la scienza e tecnica dell’umanità doveva essere mobilitata per «ridurlo», per «controllarlo». Essere ingegnere era essere responsabile – anzitutto di uomini, di operai –  ed essere coraggioso. Come i grandi medici che provarono le loro medicine su di sé, che s’infettarono volontariamente per provare vaccini.
«Vivere non necesse».
(…)

In attesa della soluzione ideale, migliore, senza contro-indicazioni, si conclude nell’immobilismo.
E nella storia umana, l’immobilismo è impossibile: diventa arretramento.
Senza inceneritori non è che si vive meglio: si vive con la rumenta a monti davanti al portone.  Senza rigassificatori, ci si avvicina al momento della penuria.
Si rischia di tornare a quelle epoche, finite solo ieri, in cui si rischiava la morte per molto meno, andando a cavallo a Londra, e senza assicurazione.  Ai tempi in cui Roma risentiva della malaria, i «miasmi» delle paludi pontine, la cui bonifica è tanto deplorata dagli ecologisti.
“Gli inceneritori non sono l’ideale”, lo so. “Le centrali atomiche sono rischiose.
Vanno evitate. Bisogna dire no”.
Strana concezione dei rischi nella nostra società.
Sapete qual è la categoria di persone che muore di più, in Italia, a parte gli ultrasettantenni?  I giovani da 17 a 23 anni.
E perché? Per comportamenti che sono tutti evitabili: droga, alcoolismo alla guida, febbri del sabato sera con relativi incidenti mortali.
Eppure, strano, nessuno scende in piazza come  si va per protestare contro gli inceneritori, o contro la ILVA di Taranto che inquina…..  per i sei mila giovani che muoiono, e per le decine di migliaia che restano tutta la vita sulla sedia a rotelle. Qui, nessuna seria prevenzione, nessun allarme sociale. Eppure, non è necessario andare in discoteca a ubriacarsi, mentre è necessario avere inceneritori,  necessario produrre acciaio nazionale.
Non necesse  morire di discoteca.  Qui, ci sono solo contro-indicazioni e nessun vantaggio. La stupidità irresponsabile è la contro-indicazione maggiore.
Un altro, contrario alle centrali nucleari, mi ha scritto: il vero problema è che una cospirazione di poteri forti sta bloccando la fusione fredda, che risolverà tutti i nostri bisogni energetici.
Un altro ancora mi segnala che è stato scoperto il motore pulito, ad acqua, ma che i brevetti sono stati nascosti dalle multinazionali. Ebbene, non discuto la credibilità di tutto questo: ma nel frattempo, mentre sgominiamo i poteri forti globali, che facciamo della monnezza a Napoli e del rincaro del barile? Perché è strano progettare di cambiare il mondo e il suo modello di sviluppo, mentre non sappiamo risolvere la nettzza urbana.
E’ una fuga nell’irreale.
Ma no,  anzi vi prendo in parola.  Occulti poteri impediscono la ricerca della fusione fredda. Benissimo: e tu, cosa fai per vincere questa battaglia? Stai studiando la fisica avanzata per proseguire quegli studi vietati?
Lo chiedo a te, personalmente.
Perché se invece ti trascini straccamente in una università inutile per avere un pezzo di carta, allora non hai il diritto a questo complottismo da quattro soldi. Cosa credi, che Pasteur e i signori Curie non abbiano dovuto lottare contro i poteri forti? Che le loro scoperte fossero accettate immediatamente, fra applausi e premi Nobel? No; soffrirono, furono osteggiati e ridicolizzati.  Alcuni, come il dottor Semmelweis inventore della asepsi,  che salvò migliaia di donne negli ospedali,  furono fatti impazzire.
Tutti costoro non si dissero: bisogna aspettare che il mondo sia migliore, che i potenti malvagi siano debellati. Il mondo, l’hanno cambiato loro.  E non con battaglie ideologiche, con mozioni di protesta; con la ricerca, con le notti al microscopio, con la sfida al conformismo imperante, con la mancanza non di «finanziamenti», ma di soldi per la cena.
E tu? Viviamo in questo mondo che ha viziato l’uomo-massa.
Le generazioni che vollero e crearono l’assistenza sanitaria gratuita non lo fecero pensando che esista un «diritto» a farsi la plastica al naso gratuita ossia a spese della collettività: lo fecero per gli operai, per i lavoratori, che non fossero rovinati da una malattia, che un incidente non aggiungesse sciagura alla sciagura, non li portasse alla fame e alla miseria con tutta la famiglia.
La sanità serviva a far tornare i capifamiglia al lavoro, anziché alla mendicità a carico della società. Era una scelta seria per affrontare una situazione tragica: il rischio inerente alla vita attiva, produttiva.
Un altro  lettore: il problema vero è il modello di sviluppo sbagliato, basato sullo spreco consumista, sul superfluo.  E come non dargli ragione?
Solo che vorrei, caro lettore, che cominciassi tu a cambiare il modello di sviluppo.
Nella tua vita.  Stai mungendo la tua vaccherella?  Coltivi il tuo orto?
Vai tutte le mattine a cercare se le tre galline hanno fatto l’uovo, sapendo che se non l’hanno fatto dovrai andare dai frati per la minestra?  Io temo, caro lettore  ecologista  e animalista, che tu pensi ad un mondo irreale: un’Italia coperta di foreste vergini (le foreste italiane non sono mai state vergini, sono coltivazioni da sopravvivenza: castagni, querce…), paludi vastissime e incontaminato regno di anofeli, libellule e uccelli rari, nemmeno un inceneritore a bruttare l’ambiente, nemmeno un’autostrada a deturpare il paesaggio bellissimo, epperò dove il supermercato sia pieno di merci fresche, il dentista abbia l’anestetico e non ti strappi il dente ma te lo curi, dove si possa fare la vacanza estiva alle Maldive o almeno in Sicilia, e la settimana bianca allo Stelvio.
Ma allo Stelvio, quando c’era la natura incontaminata che tutti rimpiangiamo, non c’erano settimane bianche.  C’era la fame e il freddo, l’ultimo orso fu ucciso nell’800, i lupi mangiavano le pecore, i pastori castagne secche e sfarinati di grano saraceno, il gozzo (cretinismo) era endemico. Eroici medici condotti cercavano di mettere una pezza, avanzando nella neve, magari con gli sci, ma non per divertimento.
Questo mondo, dove ci sono solo vantaggi e nessuna contro-indicazione, solo benefici e diritti e nessun effetto collaterale sgradevole, non esiste.  Non è mai esistito un mondo dove la spazzatura si elimina da sola, si è convissuti per secoli fra cacche di cavallo e di maiale, nell’afrore dello sterco fermentato, e li si considerava preziosi fertilizzanti.
Nel Nord, ancora pochi decenni fa, i contadini passavano le sere e le notti nella stalla, perché le mucche erano il riscaldamento  autonomo.
E persino la cacca di mucca era accettata come un dono di Dio.
Se oggi ci sono tante più sicurezze e meno effetti collaterali, non è per natura. E’ perché generazioni di faticatori, di tecnici, di medici, di feriti e di malati hanno conquistato tutto quello che noi abbiamo oggi.  Non è stato gratis.
E come l’hanno fatto?
Con il coraggio, anzitutto col coraggio di vivere. Del coraggio, del coraggio personale, la civiltà non può fare a meno, pena la sua scomparsa.  Né del personale sacrificio.
E per quanto sembri strano, è in questo la felicità.  La felicità possibile all’uomo nell’aldiquà sta in questo, nell’abnegarsi e nel coraggio.
Il vero senso di vocazione
Ho   riferito  che nessuno in Italia vuol fare l’infermiera, e un lettore prontissimo mi scrive: le infermiere devono fare tre anni d’università, e poi il loro lavoro è faticoso fisicamente, estenuante moralmente, disprezzato socialmente, e con una paga di 1.300 euro al mese.
Perché mai un giovane dovrebbe fare l’infermiere?
Ha «ragione» il lettore-massa, e nello stesso tempo ha torto. Perché mai fare l’infermiere?
La risposta lo urterà: per vocazione.E qui, «vocazione» non significa affatto «essere portati a», trarre piacere da un mestiere sgradevole come sollevare i vecchi con l’Alzheimer che pesano e togliergli il pannolone.
«Vocazione» significa qualcosa di diverso, che sapevano Nelson e Cesare,   ma anche  le madri di famiglia contadine ingobbite dalla fatica e che si toglievano il pane per darlo ai figli, i medici condotti che affrontavano i lupi in Siberia per andare a fasciare un ferito…
Vocazione significa, nel mondo reale, una cosa precisa: la cosa che devi fare tu, proprio tu personalmente, perché nessun altro la farà al posto tuo.
Non perchè «sei portato», ma perché qualcuno la deve fare, e quello – magari per circostanze della vita – sei tu.
In una società senza «vocazioni» infermieristiche, i vecchi muoiono nelle loro feci, o sono uccisi eutanasicamente. Effetto collaterale: quando sarete vecchi voi, non ci sarà nessuno a tenervi puliti dalle vostre feci, ad accorrere quando suonerete il campanello, a vegliare sulla vostra agonia.  Vi faranno firmare una volontà di morte, e voi la firmerete.
Un’iniezione, e via. Così non darete fastidio.
Certo, non tutti sono «chiamati» a tener puliti i malati; ma è incredibile che tutti, oggi, si sentano chiamati solo allo shopping (anche come commessi), allo spettacolo, al turismo, ad occuparsi del «tempo libero», a far denaro col denaro.  Il modello umano di sviluppo giusto richiede sacrificio, richiede responsabilità e abnegazione.
Il coraggio serve ancora.
E non esiste un metodo meccanico per imparare ad avere coraggio, ossia carattere: la scuola è sempre quella del sacrificio, della sofferenza presa come una sfida.
Non ci sono scorciatoie al carattere, né pillole che sostituiscano il coraggio.  E poi, guardate, lo schifo delle feci dei vecchi è in parte una fantasia: quando si è imparato come fare, lo si fa con rapidità ed efficienza.   I metodi accertati per provvedere ai bisogni dei malati sono già stati messi a punto da altri: a cominciare da una donna che in Inghilterra è un’eroina, Florence Nightingale, l’inventrice dell’arte infermieristica.  Quello che scarseggia non è lo stipendio.

La vera falla sta altrove: nella soppressione, sistematica, del primo sentimento che può indicare la «vocazione»: la pietà per il prossimo, per il malato che ha bisogno di te.
TV, pubblicità, edonismo, modelli di «successo nella vita» sopprimono questo sentimento nei giovani.
Ma io vorrei invitarvi, cari giovani, a dare ascolto a questo sentimento.
Perché la vera infelicità nella vita è non avere avuto la vocazione, o – ancor peggio – averla rigettata per andare in discoteca, per comodità, perché non vi piace soffrire né veder soffrire.
Lo so perché l’ho visto. Nella stanza dei morenti di madre Teresa, i giovani che volontariamente lavavano i malati, che pulivano le loro piaghe (letteralmente) piene di vermi, erano raggianti.
Giapponesi in pantaloni corti, belle ragazzone australiane in cotonina, chiedevano loro di fare quel lavoro, e mentre imboccavano donne semipazze e sbrodolanti, o vuotavano i pitali, nella loro faccia si leggeva questa gioia: «Ho vinto me stesso». Il mio schifo non solo è sopportabile, ma è persino una vittoria, un’affermazione, e nello stesso tempo, faccio qualcosa di utile per chi ha bisogno di me, di me personalmente.
Lo sapeva così bene Madre Teresa, che aveva rinunciato a fare lei queste cose, ad avere questa gioia, e nemmeno le faceva più fare troppo alle sue suore: lasciate che siano i giovani che vengono qui per due settimane a imboccare e a pulire i poveri. Considerava questo «toccare i poveri», «touch the poor», il primo gradino della salita, e il più «facile» e gratificante.
Le suore si occupavano dei poveri cattivi, dei disperati più immeritevoli e ingrati.
Quello è il difficile.
Il bello del mestiere d’infermiere e di badante è questo, in fondo: che lavori ed hai aperta la via della santificazione nel tuo lavoro di ogni giorno.
Che il suo senso è immediatamente nel suo fare.  Pochi mestieri hanno questa apertura, certo non quello di giornalista (o di velina, o di ricco).
Ora direte, ecco il solito cattolico, che tira l’acqua al noto mulino… No, è il vecchio che parla.
Uno che ha sbagliato o rifiutato più di una vocazione.  Sono stato giovane anch’io, e per questo so come vi sentite.  So che questa vostra voglia di provare «emozioni» fino all’autodistruzione stupida e sterile, questo vostro conformismo molle che si vuole trasgressivo e originale e che vi rende poltiglia anonima, viene dal vostro vuoto, dal vostro vile ritrarvi davanti alla vostra vocazione: non voglio fare questo, non quest’altro, non gli inceneritori, no al sacrificio, no alla scomodità.
E’ questo che vi rende tanto vuoti, dal volere e cercare la morte.  Meglio la morte per  qualcosa che una vita vuota, a questo punto vuota.
Ma la vita c’è a portata di mano: correte questo rischio di vivere, di dedicarvi, di sacrificare le vostre fantasie da Harry Potter ad una cosa sola e la sola necessaria, a una fatica, a un lavoro duro. Che ci siano responsabilità altrui, inadempienze di politici, insufficienze e disonestà di poteri forti, che il mondo sia pieno di menzogna e profondamente errato, sarà tutto vero.
Ma qui, in fondo, è la vostra vita che è in gioco.   La vostra personale. E la vostra anima.
Maurizio Blondet

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