Da Rassegna di Arianna del 25-8-2016 (N.d.d.)
Tra le innumerevoli emergenze fabbricate in provetta, gonfiate o semplicemente inventate dai media di
cui le cronache italiane sono piene da decenni, una sola è autentica, concreta, indiscutibile, “vera”,
insomma: il terremoto. Il terremoto non è l'emergenza aviaria, che forse arriva o forse no; non è
l'emergenza sbarchi, tenuta su dagli strilli di chi la denuncia; non è l'emergenza spazzatura, che poi in
dieci giorni sparisce non si sa come. Il terremoto è tangibile. Ricorrente. Incombente, sempre mortale,
nelle larghe parti della Penisola dove il rischio sismico è connaturato all'ambiente. Il terremoto è, in
qualche modo, predestinazione italiana e lo sappiamo da sempre: oltre un terzo dei 1.300 terremoti
distruttivi avvenuti nel secondo millennio nel Mediterraneo sono successi in Italia, e ci sono
zone – pensiamo al Belice, o più di recente all'Aquila – che quasi si identificano con la parola, ne sono
diventate una sorta di aggettivazione. Eppure questa sola, unica, certa emergenza è anche quella
davanti alla quale restiamo storicamente disarmati, tantoché fa quasi impressione sentire ripetere
dopo ogni scossa le identiche parole su mancato adeguamento, mancata cura, mancato rispetto delle
precauzioni fissate dalla legge e dal buonsenso, e leggere per la decima volta le stesse statistiche dei
geologi sulla ricorrenza del fenomeno (un terremoto del sesto grado ogni 15 anni circa), le stesse lagne
sull'inconsistenza dei fondi per la prevenzione del rischio sismico (che per la cronaca è diminuito dai
145 milioni di euro del 2015 agli attuali 44 milioni, un quinto della cifra stanziata per il famoso bonus
giovani)......
Oltre le emozioni del momento, che invitano a sospendere ogni polemica – perché è maramaldesco
cercare il litigio quando c'è ancora gente che scava con le mani, piange un figlio morto, ha perso le
sicurezze costruite in una vita – c'è da chiedersi se non ci sia uno specifico limite della cultura
nazionale in questacostante sottovalutazione del solo rischio certo che il nostro Paese corre, da
sempre. E se questo limite non sia riconducibile a un'idea fuorviante di identità, che collega questa
fatidica parola, così di moda ultimamente, agli usi e ai costumi delle persone, al loro modo di mangiare,
di pregare, di condursi, al limite al loro abbigliamento, anziché allo straordinario tessuto del nostro
territorio: un tessuto dove anche piccoli paesi come Amatrice, poco più di duemila abitanti, sono borghi-
gioiello di grazia impareggiabile, luoghi del cuore non solo per chi ci abita ma per chiunque ci sia
passato almeno una volta. E' il mancato riconoscimento di questa bellezza, di questa insostituibilità –
chi ridarà mai all'Italia la dolce vita di una passeggiata nel corso dell'Aquila, l'incanto da presepe di
Colfiorito, gli affreschi sbriciolati di Gubbio, certi scorci di Norcia e Cascia – ad animare da mezzo
secolo il disinteresse per i centri storici italiani, abbandonati al loro destino, alle scarse risorse
dei loro abitanti, degli anziani che ci resistono e dai quali non si può certo pretendere la lungimiranza
dell'adeguamento antisismico. Le risorse, pubbliche e private, sono tutte investite nella superfetazione di
periferie senz'anima né bellezza: le famose case nuove che non crollano, ma fanno schifo. Tutela del
territorio e del patrimonio culturale? Zero. Tutta l'Europa civile ha rovesciato questo paradigma. Ha
affidato la difesa della sua identità ai luoghi e alla loro capacità di forgiare atteggiamenti, stati d'animo,
cultura. È inimmaginabile in Francia costruire casermoni intorno ai borghi storici della Provenza. Sono
impensabili edifici funerari e infissi di alluminio dorato intorno ai paesi della Foresta Nera. E non
troverete certo capannoni industriali gialli o arancioni abbandonati nella campagna dello Yorkshire. La
cura del territorio, inteso come interconnessione di persone, case, natura, attività economiche,
ambiente, è una attività di ordinaria amministrazione ovunque tranne che qui, nell'Italia che
si riempie la bocca della parola “identità” ogni volta che arriva un barcone di stranieri ma non
sa riconoscerne l'essenza, né difenderla sul serio. È anche per questo che nei bilanci pubblici,
da sempre, la prevenzione dei disastri – terremoti, inondazioni, piene – occupa spazi
microscopici, e probabilmente gli ottomila Comuni italiani spendono più per le feste della
porchetta o del fagiolo che per la tutela del loro micromondo. Non è che siamo troppo poveri
per poterci permettere “il lusso” di un approccio diverso. È che quel “lusso” non lo
riconosciamo, e lo andiamo a cercare altrove, nelle mille orribili incompiute che costellano il
Paese, negli stadi mai finiti, negli auditorium mai aperti, negli ospedali mai inaugurati, nelle
strade mai collaudate, monumenti all'imbecillità che in giorni come questi, mentre si contano i
morti e i senzatetto, gridano vendetta più del solito.-----------
Flavia Perina
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