Un reportage della scrittrice Michela Murgia dall'Istanbul del dopo golpe. Una società che non reagisce affatto secondo lo schema descritto dai giornali italiani.
di Michela Murgia
ISTANBUL (Turchia) - Pages è una piccola libreria nel quartiere di Fatih e non è stato facile trovarla, rintanata com'è in un vicolo cieco alla fine di una strada così stretta che nemmeno gli spericolati tassisti di Istanbul ci vogliono entrare. Può sembrare anti-economico mettersi a vendere libri dove per arrivare devi andarci apposta, ma chi bussa alla porta di Pages non sta cercando banalmente libri: questo luogo curatissimo è prima di tutto un ritrovo per i rifugiati siriani.
La libreria siriana Pages
Di libri ce ne sono molti e alcuni sono editi da loro medesimi - Pages è anche un piccolo marchio editoriale - ma hanno un pubblico preciso: sono in arabo, la lingua parlata dal 90% dei siriani, e siriani sono i proprietari, i dipendenti, i musicisti che suonano il liuto al primo piano e le persone, adulti e bambini con una loro sezione dedicata, che nel tardo pomeriggio cominciano a radunarsi qui per stare insieme......
La libreria ha un bancone bar con una piccola scelta di bibite fresche che ciascuno si serve da sé in un ambiente familiare, e c'è persino un minuscolo esterno alberato dove ogni tanto, dal pollaio della casa vicina, una gallina salta dentro facendo ridere i più piccoli.
Resident chicken in the bookshop
È sotto quegli alberi che ho conosciuto Sarah, ventiquattro anni, il sorriso facile e due vivacissimi occhi color caffè. Vive qui da otto mesi e nel tavolino accanto al mio sta insegnando (in inglese) la grammatica araba a un uomo di nome Frank, un francese trapiantato a Istanbul da qualche mese per amore di una ragazza turca; lui in cambio le offre incredibilmente lezioni di italiano.
"Non meravigliarti: quando potrò andare via da qui voglio venire nel tuo paese, amo l'Italia".
Sarah lo dice con la sicurezza di chi sa di cosa parla, ma in Italia in realtà non c'è mai stata: ha visto solo i film e conosce le canzoni degli anni '70, che per desiderarla le bastano. La sua famiglia è stata smembrata dalla guerra: originaria di Laodicea, ora ha un fratello rifugiato in Svezia, una sorella in Germania e lei è qui con la madre, con cui condivide un piccolo appartamento in attesa che le acque si calmino. Di restare a Istanbul non se ne parla nemmeno.
"I siriani non sono benvenuti qui, Erdoğan ci usa solo come moneta di scambio per entrare nell'Unione Europea."
Lo penso anche io e immagino lo sappiano anche i quasi tre milioni di suoi connazionali distribuiti per tutta la Turchia, un milione dei quali vive nella sola Istanbul.
Le chiedo cosa pensa del colpo di stato mancato, se crede che ora per loro la situazione sarà diversa, e sia lei che Frank sono concordi nel dirmi che, per un rifugiato, qualunque sommovimento politico è un disastro. "Erdoğan non mi piace, ma sono felice che il golpe militare sia fallito: un regime di soldati non so cosa avrebbe potuto portare a noi esuli".
Sarah e Frank nel dehors della libreria Pages.
Sarah non è l'unica a essere sollevata. Per le strade di Istanbul c'è aria di festa dal giorno dello sventato colpo di stato e tutte le sere ci sono caroselli di auto, di bandiere, di musica e balli, di slogan gridati fino a tarda notte. Nelle auto che suonano i clacson sul ponte Galata ci sono giovani, donne e persino bambini e per le strade vedi studenti con la maglietta della Turchia che improvvisano cori e piccole parate spontanee di bandiere.
Via Istiklal, Beyoglu. Super-eroi della nazione con mantello e passeggini.
I giornali italiani hanno scritto che a fare festa è "il popolo di Erdoğan", come se queste migliaia di persone fossero fanatici e prezzolati che sostengono il presidente per partito preso.
È una visione che va incontro ai sentimenti occidentali di antipatia per Erdoğan, ma che impedisce di capire che a Istanbul le persone - al di là delle differenze politiche - sono sinceramente contente che i militari dissidenti non siano riusciti nel loro scopo.
Oltre all'onnipresente bandiera turca, "Hakimiyet Milletindir" è la scritta che campeggia su ogni manifesto, ogni palazzo, ogni striscione esposto sui luoghi pubblici e privati; il messaggio per i turchi è chiaro: la sovranità appartiene alla nazione.
La sovranità è della nazione.
Erdoğan ha ottenuto l'impensabile da questo golpe: sulla base del comune desiderio di mantenere il paese democratico, anche gli oppositori politici e i cittadini dissidenti verso le sue politiche si sono schierati a difesa del governo eletto, il suo governo, e l'assenza di opposizione verso le sue azioni successive non è solo frutto della paura dell'epurazione; opporsi a Erdoğan adesso, in un momento in cui è così smaccato il sostegno popolare per lui, vorrebbe dire aprirsi alla possibilità di una guerra civile che qui non vuole nessuno.
Non è un caso se i partiti di opposizione non hanno dato il minimo sostegno al golpe, emettendo subito comunicati in cui lo condannavano. Inevitabilmente con quegli stessi comunicati hanno rilegittimato il governo eletto, quello di Erdoğan, quello contro cui si battono ogni giorno.
Di più non si poteva scrivere (il nome di Erdoğan non c'è), ma di meno neppure e in quelle poche righe c'è forse la spiegazione più sintetica di quello che sta accadendo in questi giorni in Turchia. Per esempio del perché, mentre i giornali occidentali riportano le notizie delle conseguenze del golpe descrivendole cupamente come una repressione fuori dallo stato di diritto, a Istanbul sono in pochi a pensare che Erdoğan sulla questione golpe stia agendo in modo non legittimo.
La questione dei giusti processi ai militari golpisti e dei diritti umani dei civili presunti gülenisti non è considerata primaria dall'opinione pubblica e la ragione è ovvia: questa è una nazione che ha visto già tre colpi di stato (riusciti) dal 1960 a oggi e l'atto di tradimento del voto che i turchi hanno rischiato ancora una volta di subire è considerato degno di ogni ritorsione.
A preoccupare le persone politicamente ostili a Erdoğan è piuttosto l'escalation di potere sulle altre questioni, in particolare la sua mai nascosta aspirazione a riformare la costituzione per fare della Turchia una repubblica presidenziale; gli oppositori questa prospettiva si preparano a contrastarla democraticamente.
I giornali italiani sembrano invece molto più preoccupati della pretesa islamizzazione in atto sotto il governo Erdoğan. Ho letto articoli che descrivevano scenari di progressiva fanatizzazione della religione islamica e la presentazione di Istanbul come una città invasa da "uomini barbuti e donne velate" (cit.).
Il quartiere di Beyoğlu è una buona cartina di tornasole del contrario, sebbene non sia l'unica in una città che di centri urbani ne conta sette, tanti quanti sono i colli su cui è costruita. Beyoğlu però è uno dei punti più politicamente caldi della città, quello in cui la grande via Istiklal sfocia in quella piazza Taksim dove tre anni fa Erdoğan mandò l'esercito contro i manifestanti pacifici che lo contestavano, facendo nove morti e migliaia di feriti. I giornali italiani hanno scritto che il quartiere è deserto e che le donne dopo le diciannove hanno paura ad andarci senza il velo, ma a smentire questa descrizione cupa basta una comune passeggiata non dopo le diciannove, ma anche dopo le ventidue, dove nei locali e nei vicoli c'è una vita paragonabile a quella di Trastevere il venerdì sera e dove le donne camminano per le vie fino a tarda notte vestite esattamente come a loro garba, cioè tutte diverse. Alcune sono totalmente occidentalizzate, alcune indossano un velo che copre il volto e molte sono velate solo parzialmente, come si annodava il fazzoletto mia nonna.
Camminano con i compagni e i figli, ma anche sole o in compagnia di altre ragazze, spesso con la compresenza di abbigliamenti differenti nello stesso gruppo.
Madre e figlia sul traghetto verso la parte anatolica di Istanbul.
Solo l'approssimazione che spesso connota lo sguardo occidentale verso il medio oriente può indurre a scambiare il velo con una mancata emancipazione. In Turchia le leggi che consentono alle donne di indossare quello che vogliono ci sono e nessuno le ha toccate: l'unica cosa che ha fatto Erdoğan in merito è stato togliere la norma che obbligava le donne a non portare il velo negli uffici pubblici e nelle università, norma invero discutibile: mia nonna per esempio si sarebbe certamente rifiutata di rispettarla, perché nessuna può essere indotta contro la sua volontà ad adeguarsi ai parametri di un'emancipazione di stato, che della morale di stato è l'altra faccia.
Alcuni giornali e siti italiani, per provare che la presunta islamizzazione erdoganiana sta mettendo a rischio la libertà femminile, hanno scritto che in Turchia con Erdoğan la legge sull'aborto è in pericolo, a causa del fatto che una parte dell'opinione pubblica lo considera un omicidio e il numero delle obiezioni di coscienza è talmente alto da renderla quasi inapplicabile.
Cambiate la parola Turchia con la parola Italia e avrete lo stesso risultato, ma certo nessuno da noi si sognerebbe di definire "cristianizzazione" l'identico residuo di mentalità patriarcale che ancora sopravvive in tutte le società laicizzate. Pretendere di supporre "l'islamizzazione" della Turchia da dati come questi è quantomeno forzato, oltre che un po' islamofobo.
Se niente sembra semplice in Turchia è perché non lo è, anche se spesso le nostre categorie culturali tendono a semplificare la complessità altrui per farla entrare dentro alla nostra cornice. Lo capisco, ma il risultato è quello di falsarla e diffonderne una percezione distorta.
Da Istanbul per ora è tutto.
Bambino visibilmente islamizzato attende il traghetto per varcare il Bosforo.
Fonte: https://www.facebook.com/notes/michela-murgia/due-o-tre-cose-turche-viste-da-me1/10153977999383347
Nessun commento:
Posta un commento