Stefano Rizzi 07:45 Lunedì 20 Giugno 2016 3
Un partito tramortito dal crollo del "muro di Torino" che perde tutti i ballottaggi. Il segretario regionale Gariglio e il collega torinese Morri pronti ad aprire la riflessione. Ma più che capri espiatori, servono idee e risorse nuove
Se e quando il Partito Democratico uscirà dalle macerie prodotte dal crollo del muro di Torino non potrà esimersi dall’addossarsi la responsabilità del disastro. Anzi, è costretto a farlo quando ancora vi è sepolto, non solo nel capoluogo, ma anche a Novara, seconda città della regione dove non regge neppure la giustificazione della stanchezza e della voglia di cambiamento dopo oltre vent’anni di governo addotta per la sconfitta di Piero Fassino. Se quest’ultimo era il vecchio rispetto al nuovo e al giovane rappresentato dalla nuova sindaca grillina Chiara Appendino, Andrea Ballarè è giovaned’anagrafe ed era l’immagine (sia pure un po’ sfocata rispetto agli inizi) del renzismo in Piemonte. È uscito sconfitto dal leghista Alessandro Canelli, esponente di un centrodestra partito diviso che poi si è (almeno in parte) riunito riportando la città nelle mani del Carroccio che l’aveva governata per più di un decennio. E che la débâcle di Torino, bruciante con scottature che arrivano al vertice del Nazareno, sia non un caso isolato in regione, ma solo quello più eclatante, lo dimostra anche la sconfitta di un altro piddino, Luca Barbero che consegna al M5s anche Pinerolo dove sarà sindaco Luca Salvai. Stesso dicasi per San Mauro Torinese altro comune che sarà governato dai pentastellati, per non contare ulteriori sconfitte subite dal Pd, da Carmagnola a Nichelino, passando per Ciriè......
Fin troppo evidente come l’eccezione diVenaria, considerata tale all’epoca, non sia ormai più tale. Altrettanto evidente il problema – meglio sarebbe dire la voragine – che la vittoria del M5s letta con le lenti della sconfitta apre nel Pd. O meglio, riapre. Già, perché i segnali del possibile cedimento del muro erano udibili e visibili non da ieri, almeno da chi non cercava di nasconderli dietro una facciata – non falsa né posticcia – di una sostanzialmente buona amministrazione e risultati ottenuti anche ai tempi della crisi, ma tuttavia reali. Se come ammette il segretario regionale dem Davide Gariglioazzardando “una delle letture che si possono fare a caldo di questa sconfitta” a Torino “dopo 23 anni di governo di centrosinistra nella maggioranza dei cittadini è emersa una volontà di cambiamento a prescindere, di interrompere quel ciclo” è pur vero che il partito, o meglio lo stretto entourage di Fassino, i segnali di questa volontà non li ha percepiti o, peggio, li ha scientemente sottovalutati evitando di prendere le contromisure.
L’aver subito la sconfitta da una candidata pressoché sconosciuta al suo esordio in campagna elettorale, con una modesta esperienza che non va oltre quella di pur combattiva consigliere comunale e un programma in molti punti indulgente agli spot, per non dire di alcune contraddizioni tra i suoi supporter con cui dovrà fare i conti, rendono le macerie sotto cui è finito Fassino e che hanno colpito il Pd ancora più pesanti. Difficili (al limite dell’impossibile) da spiegare senza fare quella che un tempo nella sinistra si chiamava autocritica. Partendo da lontano. Almeno da cinque anni fa. La notte scorsa Fassino ha detto che “ci sarà tempo per riflettere”, aggiungendo che “tutti i commenti rilevano che la cosa eclatante di Torino è il fatto che la città sia sta ben governata e nonostante questo il voto è andata alla nostra avversaria”. Appunto. Proprio qui sta il nodo e la spiegazione che il Pd deve darsi senza infingimenti.
Se non è bastato amministrare bene e tenere Torino, al contrario di altre città incominciando da Roma, lontano da scandali o vicende giudiziarie è da ricercare in altro quella volontà della maggioranza dei cittadini citata da Gariglio. Ancora Fassino dice che “tutti ne danno una lettura di tipo politico”. Il fronte anti-Renzi? Possibile, ma non certo unica motivazione, peraltro smentita dal risultato di Milano e Bologna. È indubbio come sostiene ancora il segretario regionale che “i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere l’elettorato sia di destra sia di sinistra”, quella “maggioranza eterogenea con cui resta da vedere – osserva l’ormai ex primo cittadino – come la Appendino potrà guidare la città”.
Il problema, come si diceva, risale indietro nel tempo, alla scelta di Fassino quale successore di Sergio Chiamparino nella città che raccoglieva l’eredità olimpica, ma anche quella del dopo Fiat e viveva l’immanenza della crisi. Fassino – e non lo diciamo ora in articulo mortis (ovviamente politica) – forse non era la figura adeguata, pur riconoscendogli il valore di un politico tra i più capaci e stimati con un cursus honorum invidiabile da tanti rampanti odierni anche e soprattutto nel Pd. La stessa partita giocata alle primarie proprio con Gariglio aveva messo in evidenza non solo il fattore generazionale, ma anche quella necessità di un rinnovamento per il post Chiamparino, che invece non c’è stato. Lo stesso passaggio di testimone tra i due ex ragazzi di via Chiesa della Salute (perpetuato con la nomina del sindaco allora uscente al vertice dellaCompagnia di San Paolo e proseguito con l’elezione a presidente della Regione) ha finito per definire quell’immagine di un Pd che non sa rinnovare (e ancora prima) costruire una classe dirigente.
Negare il “Sistema Torino” capace di stringere alleanze e fornire posti ai soliti noti, ma anche a miracolati carneadi non ha impedito che gli elettori abbiano deciso di correre il rischio di mettersi nelle mani di quella che a tratti pare ancora una corte dei miracoli. Non cambiare rotta ha portato il Pd a schiantarsi contro quel M5s che non a caso la Appendino ha definito un iceberg, ovvero la voce di una città per gran parte – almeno così testimoniano i quasi dieci punti di distacco – inascoltata o che si è sentita tale.
Certo non sbaglia Gariglio quando dice che “Chiara Appendino è stata una scelta da parte del M5s indovinata per Torino, una figura della borghesia spendibile in una città che avrebbe probabilmente rifiutato un candidato più barricadero e grillino”, ma il problema per il Pd resta il suo candidato e, soprattutto, quell’insufficienza della buona amministrazione rispetto all’immagine di chiusura, spesso distacco e lontananza dai cittadini del sindaco. Che non poteva essere certo recuperata con due giri di valzer alla bocciofila o le scarpe consumate nelle ultime settimane nei mercati.
Il segnale arrivato dalle periferie già al primo turno era stato chiaro, il tempo di recuperare cinque anni insufficiente. “Per il centrodestra far perdere il centrosinistra dopo 23 anni era un’occasione troppo ghiotta” osserva Fassino che ha chiamato la Appendino per congratularsi. “In questo sistema se il terzo e il secondo di mettono d’accordo il primo perde”. I numeri gli danno ragione, ma c’è un altro sistema, quello Torino che piaccia o no, ha pesato. E sul quale il Pd ora deve riflettere, così come su quello della formazione di una classe dirigente che non sia frutto di cooptazione, senza peraltro tralasciare la stessa azione politica e le scelte della Regione. “Rifletteremo con la lucidità e la freddezza necessarie” annuncia Gariglio. Sui rumors che in nottata parlano di sue possibili dimissioni (assieme a quelle del suo collega torinese, Fabrizio Morri), rimanda a “riflessioni e ragionamenti che si dovranno ovviamente fare”. L’ipotesi c’è, magari per dare uno scossone e rimettere in piedi un partito che adesso è ancora stordito e ammaccato. Sotto le macerie di un muro crollato in maniera inaspettatamente fragorosa. Ma non certo senza dare avvisaglie
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