CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE –
di Luigi Copertino
prima parte
«Il mondo è sull’orlo di un precipizio
di disoccupazione, miseria, guerre,
con segni negli astri»
Amparo Cuevas, veggente spagnola,
a proposito delle rivelazioni
di Maria Vergine all’Escorial (anni ’80)
Euro, l’esperimento fallito dell’egemonia disaggregante della Germania.
«Le prospettive per l’economia
mondiale sono circondate da incertezza. Dobbiamo fronteggiare
persistenti forze disinflazionistiche. Si pongono interrogativi riguardo
alla direzione in cui andrà l’Europa e alla sua capacità di tenuta a
fronte di nuovi shock. (…) A fine anno abbiamo ricalibrato la nostra
politica per fronteggiare nuovi effetti avversi derivanti dagli
andamenti economici mondiali, che hanno spinto al ribasso le prospettive
di inflazione. Questi effetti avversi si sono intensificati agli inizi
del 2016, rendendo necessario, da parte nostra, un orientamento ancora
più espansivo della politica monetaria … abbiamo ribadito che, anche
dinanzi a forze disinflazionistiche su scala mondiale, la Bce non si
piega a un livello di inflazione eccessivamente basso»....
Nonostante che i media si siano
concentrati sull’allarme lanciato dal presidente della Bce circa il
rischio di perdere una intera generazione di giovani a causa dell’alta
disoccupazione, la dichiarazione veramente cruciale di Mario Draghi,
contenuta nel rapporto annuale della BCE illustrato il 7 aprile scorso, è
quella sopra riportata. Perché, nonostante che Draghi eviti a tutti i
costi di usare il termine deflazione sostituendolo con un più
rassicurante “disinflazione”, con tale dichiarazione la BCE afferma
chiaramente che le radici della crisi, che è globale, devono cercarsi
nel crollo verticale della domanda aggregata e che quindi le analisi
keynesiane sulla priorità della domanda rispetto all’offerta, troppo
frettolosamente accantonate, sull’onda dei trionfi reaganiani e
thatcheriani del monetarismo, tornano oggi prepotentemente di attualità.
Lo scenario deflattivo che si sta
profilando nell’economia mondiale, con una futura durata, secondo
alcuni, di parecchi decenni, riguarda l’eurozona molto da vicino perché
proprio la deflazione sta facendo emergere tutta la fragilità teoretica,
di stampo ordoliberista, che è alla base della costruzione della moneta
unica europea. L’euro è, infatti, uno strano esperimento. E’ nato dalla
convinzione tecnocratica che si possa fare a meno della politica, o
meglio dell’Autorità Politica, nel governo dell’economia. Una moneta
senza Stato per Stati senza moneta, questo è l’euro. L’esperimento
avrebbe dovuto dimostrare, per la prima volta nella storia, che la
moneta non esiste perché esiste la Comunità Politica ma esiste per la
sola utilità degli scambi mercantili senza alcun previo fondamento
etico-politico. L’euro avrebbe dovuto palesare che la moneta è solo un
mero e brutale fatto mercantilistico, uno strumento di reciproca utilità
tra operatori di mercato avulsi da qualsiasi dimensione politica, di
per sé “irrazionale”. Nella concezione tecnocratica del mondo, infatti,
basta applicare la razionalità tecnica, per definizione neutra e
neutralizzante, affinché la realtà si adegui alle infallibili
costruzioni concettuali dei tecnocrati, depositari della “Scienza”, i
soli capaci di governare razionalmente l’umanità. Quando la tecnocrazia
opera in campo monetario essa diventa bancocrazia. Quest’ultima è stata
la madre dell’euro nella convinzione che dalla presunta neutralità
tecnica, di mercato, della moneta si sarebbe, ma solo successivamente,
giunti ad una federazione politica europea. Una convinzione, a ben
guardare, marxiana che fa del Politico la sovrastruttura dell’economia.
L’esperimento, anche laddove dovesse
sopravvivere, è fallito clamorosamente. La competenza tecnica è
certamente una componente essenziale del governo dell’economia ma essa
non si da mai da sola, indipendentemente dal Politico. La pretesa di un
governo della moneta e dell’economia assolutamente tecnico ha creato un
vuoto politico che è stato abilmente riempito, nell’ignavia delle classi
dirigenti altrui, dalla Germania mercantilista ed ordoliberista. La
potenza economica tedesca, infatti, detta legge a tutti gli altri
proprio perché è del tutto assente una superiore istanza politica di
tipo “confederale-imperiale” come quella già conosciuta dall’Europa
nella sua lunga storia. All’idea di Impero, sul modello
cristiano-romano, si è sostituito l’imperialismo nazionalista del nuovo
Reich tedesco.
Il problema storico della Germania, lo
stesso che portò al fallimento del primo Reich prussiano e poi del
secondo Reich guglielmino e quindi del terzo Reich nazista, è sempre lo
stesso: mancando essa di una autentica visione universalista – sul tipo
del Sacro Romano Impero (non a caso i tedeschi non amano molto Federico I
Barbarossa né Federico II di Svevia, troppo “romano-cattolici”, e
piuttosto contrappongo ad essi un Enrico il Leone o un Federico I di
Prussia perché “più germanici”) – la Germania, pur vocata per potenza al
comando, non è capace di unire in un comune destino i popoli ma, con la
sua pretesa egemonica (Deutsche über alles), finisce puntualmente per
dividerli e metterli contro se stessa.
Il problema tedesco ha una lapalissiana
radice luterana, dato che il nazionalismo auto-centrico della Germania
ha origine storica nella nazionalizzazione ecclesiale inaugurata, contro
l’universalismo romano, da Lutero, con tanto di sostituzione del latino
con l’idioma nazionale nella liturgia, oltretutto spogliata per il
venir meno dal fondamento sacerdotale ed apostolico del celebrante, di
ogni carattere e realtà sacrificale e sacramentale. Solo alla luce di
questo triste percorso storico della Germania si comprende, ad esempio,
la differenza essenziale che, a suo tempo, distinse, pur nell’alleanza
militare, l’Austria Asburgica, erede dell’universalismo cattolico
medioevale, dal Reich bismarckiano-guglielmino tutto proteso al dominio
nazionalista tedesco.
Anche l’hitleriano “Nuovo Ordine
Europeo”, che nella sua veste di terza via tra capitalismo e comunismo
tanto affascinò la gioventù social-nazionalista di tutti le nazioni
europee del tempo, altro non era, al di là della propaganda, che la
prospettiva di un’Europa a dominio tedesco, organizzata secondo una
gerarchia tra nazioni, e non la promessa di un’Europa confederale tra
popoli eguali per dignità. Il fatto che, in quel momento, a fronte della
duplice tenaglia dei due grandi imperialismi ideocratici, il
capitalistico-occidentale ed il comunistico-sovietico, la Germania
dominatrice in Europa sembrasse rappresentare, paradossalmente, la
resistenza europea alle forze anti-europee, non toglie – ed in proposito
il disincanto storico è quanto più che mai necessario – che il Nuovo
Ordine hitleriano fosse, in fondo, anch’esso anti-europeo ossia estraneo
alla grande tradizione spirituale e politica, cristiana ed umanistica,
europea.
Quando si tenta di costringere i popoli
in innaturali ed a-politici scenari come ha tentato di fare la
Bancocrazia eurocratica, la reazione dei popoli medesimi è, alla lunga,
inevitabile. Lo spettro del populismo che oggi agita i sonni delle
tecnocrazie mondialiste e delle classi politiche ortodosse, ossia
sottomesse all’ortodossia economica liberista, è nient’altro che
l’inevitabile esito del fallimentare esperimento monetario eurocratico
che si è voluto a tutti i costi, secondo una logica costruttivista ed
ideologica, perseguire in un’ottica impolitica, anzi anti-politica. Il
disfacimento in atto dell’Unione Europea dimostra che cacciato dalla
porta il Politico rientra dalla finestra, con la forza dei nazionalismi e
dei populismi trascinati da un inarrestabile consenso di massa dal
momento che nel nazional-populismo i popoli vedono non posizioni di
aggressione verso gli altri – attualmente i nazionalismi che stanno
scuotendo l’Europa non hanno, almeno finora, il volto aggressivo dello
sciovinismo – ma istanze di autodifesa dall’austerità eurogermanica,
dalla speculazione della finanza apolide ed anche dall’immigrazione
scatenata dalla disastrosa politica americano-occidentale nel Vicino
Oriente ed ai confini della Russia putiniana.
Se l’auspicio dei suoi padri fondatori,
Alcide De Gasperi, Robert Schumann e Konrad Adenauer, era quello di
un’Europa cristiana e confederale – posta però, ed era qui la debolezza
del loro disegno, dato lo scenario del condominio mondiale Usa-Urss
dell’epoca, all’interno del settore occidentale dimenticando che tra
Europa ed Occidente anglofono, di qua e di là dell’Atlantico, vi è
sempre stato, almeno fino al 1945, un abisso di civiltà – l’esito del
progetto ora realizzato è il riesplodere, benché in forme diverse, della
conflittualità intra-europea nei mille rivoli degli egoismi nazionali,
ad iniziare dal quello tedesco, fomentati dalle reciproche paure e dai
divergenti interessi economici tra i diversissimi, per storia e cultura,
popoli europei. La mancanza di un collante unitario – e l’unico vero
collante poteva essere solo il Cristianesimo ma, come è noto, la
massoneria europea, in primis quella francese, si oppose alla richiesta
di Papa Wojtila volta a sancire le radici cristiane dell’Europa quali
suo fondamento – impedisce ogni disegno confederale rispettoso della
diversità e del pluralismo dei popoli europei e tuttavia anche capace di
unirli secondo la prospettiva, cattolica e joseantoniana, delle nazioni
intese quali “comunità di destino nell’Universale”.
Quantitative Easing
Nel 2012 Mario Draghi, da poco alla
guida della Banca Centrale Europea, di fronte alla frammentazione cui si
avviava l’esperimento eurocratico, preda della speculazione scatenatasi
sui titoli di Stato dei Paesi aderenti all’unione monetaria europea,
intervenne dichiarando pubblicamente che la Bce, aggirando
esegeticamente il divieto ordoliberale di marca tedesca posto nel suo
statuto, avrebbe acquistato, sul mercato secondario, i titoli degli
Stati europei aggrediti dalla speculazione con lo scopo di abbassare gli
altissimi ed insostenibili tassi di interesse richiesti dai mercati per
comprare il debito pubblico dei Paesi euro-mediterranei.
Fu l’annuncio del “Quantitative Easing” ossia dell’“Alleggerimento
quantitativo” consistente in massici acquisti, a basso tasso di
interesse, da parte della Bce, dei titoli di Stato dei Paesi
dell’eurozona in difficoltà, in modo da raffreddare le tensioni
speculative intorno ad essi. Così facendo Draghi si poneva in rotta di
collisione con la potente Bundesbank tedesca, azionista egemone nel
Board della Bce, che nella politica monetaria espansiva vede da sempre
un sostegno all’“azzardo morale”, ossia alla spesa pubblica facile,
delle classi politiche e quindi, secondo la “teoria quantitativa della
moneta” di matrice classica e neoclassica e tornata in auge con il
monetarismo di Milton Friedman, all’aumento dell’inflazione per aumento
della massa monetaria legale in circolazione.
Nonostante questa opposizione, Mario
Draghi ottenne il via libera della Merkel, che intervenne a tacitare
Jens Weidmann il rampante banchiere centrale tedesco, perché la
cancelliera si rese conto che il dogma ordoliberista dell’assoluta
separazione tra autorità monetaria e autorità politica, ossia tra
politica monetaria e politica fiscale, non funziona. Sicché, nel
tentativo di salvare l’euro, la Merkel assecondò il progetto di Draghi
ma ponendo condizionalità in linea con la politica di austerità fiscale,
ossia di contrazione della spesa pubblica, imposta dalla Germania
mercantilista, innanzitutto nell’interesse delle sue banche a rischio
default per l’esposizione, contratta nel decennio 1999-2009, con l’area
euro-mediterranea ampiamente foraggiata di credito facile, concesso – si
badi! – più ai privati che agli Stati (la crisi iniziata nel 2009 è
crisi da debito privato non da debito pubblico, quest’ultimo, in quel
momento, in lenta ma constante decrescita e poi, causa salvataggio
pubblico delle banche, tornato a crescere).
Dette condizionalità consistevano
innanzitutto in drastici tagli di spesa pubblica, nell’illusione di far
scendere il debito statuale che invece aumentò a causa dell’effetto
recessivo sul Pil prodotto dai tagli di spesa, e poi nelle leggendarie
“riforme strutturali” – i cosiddetti “compiti a casa” – ad iniziare
dalla contenimento salariale per sostenere la produttività, come se la
crescita fosse possibile contraendo la domanda interna aggregata e
puntando solo sulle esportazioni. Da qui le politiche, sul tipo del
renziano Jobs Act, per flessibilizzare il lavoro, favorendo in altri
termini l’offerta rispetto alla domanda nell’illusione che i posti di
lavoro stabili, anziché dal rafforzamento della domanda aggregata in
modo che possa assorbire l’offerta, derivano da agevolazioni per gli
imprenditori nella gestione a loro beneplacito dei dipendenti, con
correlativo scaricamento sull’erario, in termini di reddito minimo
garantito o sussidi vari di disoccupazione, della libertà
imprenditoriale di agire insindacabilmente nelle decisioni di
delocalizzazione aziendale e di licenziamento. Questo è il modello
tedesco che però, funziona, a senso unico, solo se sussiste l’asimmetria
tra un forte centro-nord, la Germania, in surplus commerciale e
finanziario ed una debole sud-periferia, l’Europa mediterranea, in
deficit ma sovvenzionata finanziariamente, per aprire mercati ai
prodotti tedeschi, dalle banche nordiche.
L’austerità strumento dell’egemonia euro-germanica
Il modello è stato messo in discussione
dalla crisi mondiale del 2008, quando la necessità per le banche
tedesche di rientrare dall’esposizione verso l’area mediterranea, perché
pressate dal bisogno di coprirsi dalle ingentissime perdite subite in
derivati, dato che avevano, esse sì!, moralmente azzardato speculando
nei truffaldini titoli, come i sub-prime, ad alto rischio, diede lo stop
al circuito finanziario “centro-periferia” pensato pro domo germanica.
Il rischio sistemico che minacciava, nel 2008, l’intero sistema bancario
globale rese impensabile anche il tentativo di perpetuare il circuito
“centro-periferia” con eventuali aggiustamenti simmetrici in modo da
riequilibrare le bilance dei pagamenti tra Paese, come la Germania, in
surplus e Paesi, quelli euro-mediterranei, in deficit. Imporre
aggiustamenti di questo tipo significa, eliminando l’asimmetria sulla
quale il sistema si basa, rinunciare ai sogni di egemonia e passare da
politiche di contrazione interna della domanda, per agevolare le
esportazioni, a politiche di sostegno alla domanda interna per aumentare
le importazioni che sono le esportazioni altrui. Esattamente quel che
la Germania non voleva e non vuole. Ma senza cambiare politica economica
non è possibile nessuna simmetria: infatti se tutti, simmetricamente,
producono solo per esportare ma nessuno, a causa della contrazione
salariale e di spesa pubblica interna, ha reddito sufficiente per
comprare in abbondanza i prodotti altrui, è evidente che il meccanismo
non può funzionare. Pertanto, l’eurocrazia germanica ben pesò di imporre
l’austerità ai Paesi “sudici”, tra i quali il peggior trattamento è
stato riservato alla povera Grecia, nell’illusione di perpetuare il
Quarto Reich. Con il solo risultato che la recessione si trasformò ben
presto in depressione.
L’unico modo per realizzare una
simmetria di mercato è quello, nient’affatto liberista e “spontaneista”,
di intervenire con meccanismi di aggiustamento e di compensazioni tra
surplus e deficit commerciali e finanziari tra gli Stati, ossia
“punendo” non solo le posizioni di deficit, come pretende la Germania
mercantilista, ma anche e soprattutto le posizioni, quali quella
tedesca, di surplus costringendo chi è in sopravanzo a praticare
politiche di aumenti salariali interni e di maggior spesa pubblica al
fine di accrescere la domanda aggregata nazionale con lo scopo di aprire
ai prodotti esportati dai Paesi in deficit spazi di mercato nei Paesi
in surplus.
Ma questo richiederebbe due cose: in
primis, più che una moneta unica modellata sulle sole esigenze dei Paesi
egemoni dell’eurozona, ad iniziare dalla Germania, una moneta di conto
comune cui agganciare le singole monete nazionali secondo un cambio
fisso ma con ampia flessibilità ed, in secondo luogo, che tale
meccanismo sia presidiato da una forte Autorità Politica Confederale con
potere di intervento per riequilibrare le bilance dei pagamenti
nazionali con reciproche compensazioni e per coordinare l’azione delle
banche centrali nazionali in caso di attacchi speculativi sui
differenziali di cambio monetario o sui differenziali di rendimento dei
titoli di Stato, assicurando una condivisione del debito pubblico tra i
partner della stessa area monetaria contestualmente ad una
armonizzazione delle politiche fiscali e di spesa degli Stati
confederati, che però non assuma i parametri di Maastricht (60% rapporto
Pil/debito pubblico e 3% limite massimo di deficit di bilancio) come un
dogma ma li legga in modo flessibile a seconda dei cicli economici, per
accelerare o frenare a seconda delle necessità.
A Draghi quel che è di Draghi
Quando la Merkel appoggiò Draghi lo fece
al solo scopo di salvare un pericolante sistema, come quello attuale,
che però porta acqua solo o prevalentemente al mulino tedesco. La
cancelliera non aveva affatto alcuna intenzione di avviare l’Europa
verso una riforma delle sue attuali strutture né di abbandonare il credo
ordoliberista e mercantilista della Germania, dominatrice nello
scenario attuale, in favore di una prospettiva di tipo keynesiano e
confederale, ossia con prevalenza della Politica sul mercato.
Anche Mario Draghi, del resto, allievo
“infedele” del grande Federico Caffè, dietro l’immagine, falsamente
accreditata dai media, di un economista di sensibilità keynesiana,
nasconde il volto di una concezione di politica economica per la quale,
nell’indipendenza assoluta della Banca Centrale dai governi, l’Istituto
di Emissione interviene ponendo esso ai governi le condizioni del suo
intervento. Una concezione, quindi, tecnocratica e non sovranista o
democratica.
Va tuttavia riconosciuto a Mario Draghi
il merito di essersi opposto alle pressioni tedesche che mirano a
cambiare la politica monetaria espansiva della Bce. La Germania, per
voce della Merkel e di Schaüble (che, si dice, stiano anche manovrando
per una “abdicazione” di Draghi), ha recentemente criticato la politica
di bassi tassi di interesse inaugurata dall’Istituto di Francoforte.
Dietro la critica tedesca vi sono i conservatori tedeschi e la lobby
bancaria germanica penalizzata dai tassi a zero imposti dalla Bce.
Infatti il sistema bancario tedesco ha finora prosperato promettendo ai
depositanti alti margini di rendita del tutto al di fuori della realtà
effettiva, sicché ora vede compromesse le prospettive fallaci con le
quali ha sostanzialmente ingannati i risparmiatori germanici. Da qui le
pressioni su Draghi fatte proprie dal governo conservatore tedesco che,
dal canto suo, vede scemare il consenso a causa delle magre rendite che
si profilano per i risparmiatori/elettori tedeschi cui poi si aggiunge
la crisi innescata dal problema immigrazione.
La stampa tedesca di indirizzo
conservatore ha scatenato una campagna denigratoria verso l’attuale
presidente della Bce aizzando il pubblico dei risparmiatori teutonici
contro l’italianità di Mario Draghi. All’opinione pubblica tedesca viene
fatto credere che la politica monetaria espansiva attuata da Draghi sia
dovuta al fatto che il presidente della Bce è italiano e quindi
portatore della “cultura spendacciona”, etnicamente insita nel sangue
stesso degli euro-mediterranei, cui si oppone la, presunta, virtuosità
ed il, presunto, rigore germanico. Il razzismo suprematista è sempre
rimasto latente nell’anima tedesca insieme all’anti-romanità tipicamente
nordico-protestante. Infatti, le critiche mosse a Mario Draghi in
quanto latino e mediterraneo nascondono, che lo si voglia riconoscere o
meno, un antico retaggio ossia quello luterano-calvinista contro la Roma
papista, “Loss von Rome!”. L’anti-romanità era parte essenziale anche
del programma del Nsdap, del partito nazional-socialista dei lavoratori
tedeschi, e male fece Mussolini a non tenerne conto nel tessere le
alleanze dell’Italia negli anni trenta del secolo scorso (infatti, per
tutta la durata della guerra, compreso il periodo della Repubblica
Sociale che tentò di riscattare il carattere “socialista” del fascismo,
la Germania considerò l’Italia poco più di una nazione vassalla della
potenza del Reich millenario e trattò gli italiani da pezzenti molesti
piuttosto che da veri alleati).
Alle critiche tedesche Mario Draghi ha
risposto, dignitosamente, ricordando che la Bce non è al servizio della
sola Germania e che la sua politica monetaria deve tener conto di tutti i
Paesi dell’eurozona e non solo degli interessi tedeschi. Sembra
finalmente che qualcuno abbia iniziato a dire “no!” alla prepotente
Germania. Però va osservato che Mario Draghi ha replicato alla Germania
facendosi scudo dello statuto di indipendenza della Bce sancito dal
Trattato di Maastricht. In sostanza il Presidente della Bce ha ricordato
che lui ed i suoi consiglieri sono indipendenti dai governi nazionali e
dalla stessa Commissione europea quando stabiliscono le linee di fondo
della politica monetaria. In questo caso l’indipendenza dell’Istituto di
emissione è servita a rigettare le pretese della nazione egemone in
Europa. Resta tuttavia il problema del rapporto tra Banca Centrale e
Governo, che nell’eurozona è complicato oltretutto dal fatto che a
fianco della Bce non esiste alcun Governo confederale, ossia non esiste
alcuna Autorità Politica ma solo una tecnocrazia commissariale che, a
sua volta, risponde agli interessi delle nazioni più forti ad iniziare
dalla Germania.
La nuova “quadripartita” suddivisione dei poteri
Montesquieu ci ha insegnato che i Poteri
dello Stato – legislativo, esecutivo, giudiziario – devono essere tra
loro distinti onde evitare l’assolutismo del potere medesimo. Lo Stato
di diritto, liberale, si è costituito sulla base di tale principio. Il
filosofo francese non aveva previsto, tra i poteri dello Stato, anche
quello “monetario”, ossia la produzione, l’emissione e il governo della
moneta quale espressione della sovranità monetaria dell’Autorità
Politica. Forse anche per questa carenza filosofico-politica il potere
finanziario privato ha monopolizzato le Banche Centrali sin dalla loro
nascita con quella inglese nel 1694. Da allora, salvo una breva
parentesi tra gli anni ’30 e gli ’80 del XX secolo, gli anni
dell’economia keynesiana, le Banche Centrali sono sempre state private.
Il loro capitale è costituito dalle partecipazioni azionarie delle
banche commerciali e delle assicurazioni (oltretutto creando un
conflitto di interessi tra controllante e controllate). Ora, questa
situazione, per la quale un organismo privato esercita funzioni
pubbliche, è un obbrobrio giuridico e costituzionale. Sarebbe come se la
Magistratura, ossia il Potere giudiziario, non fosse solo indipendente
dal Governo ma fosse addirittura composta da giudici privati, da arbitri
non statuali. L’indipendenza o l’autonomia della magistratura, che è
solo tecnica perché giustamente l’esercizio della giurisdizione
necessita di alte competenze specifiche, non significa anche
privatizzazione del potere giudiziario. Sicché non si capisce perché
mai, invece, il potere monetario deve essere esercitato da un organismo
privato, che risponde non allo Stato ma ai “mercati finanziari”.
L’indipendenza o autonomia tecnica della
Banca Centrale (“indipendenza” ed “autonomia” non sono la stessa cosa e
si dovrebbe pur stabilire i limiti, appunto tecnici, della loro
larghezza ed ampiezza in modo da renderli compatibili e quanto più
armonici con la sfera del Politico)sarebbe egualmente assicurata anche
se il suo patrimonio e la sua capitalizzazione fossero, come dovrebbe
essere, pubbliche. Il timore che, in tal modo, il Governo possa incidere
sull’autonomia tecnica della Banca Centrale mediante la decisione
politica sulla entità della sua patrimonializzazione e capitalizzazione
non sussiste laddove il rischio di far fallire, insieme alla Banca
Centrale, l’intero sistema finanziario-economico della nazione sarebbe
troppo grande per qualunque decisore politico le cui sorti dipendono
comunque dal fatto che il sistema resti in piedi. In ogni caso con
opportune norme di garanzia, che impongano al Governo obblighi di giusta
ed equa capitalizzazione e patrimonializzazione della Banca Centrale,
qualunque rischio del genere potrebbe essere agevolmente vanificato.
Nel rapporto tra Governo e Magistratura
possono sempre innescarsi conflitti senza che ciò tolga nulla alla
reciproca distinzione di ruoli, ed anzi, al contrario, l’eventuale
dialettica tra i due poteri, nonostante ogni scossone, è inevitabilmente
destinata a ricomporsi proprio perché essi sono alla fine costretti a
cooperare dall’unità stessa del sistema ordinamentale e costituzionale.
Analogamente anche nel caso della nazionalizzazione della Banca
Centrale, nel rispetto della sua autonomia/indipendenza tecnica,
potrebbero sempre insorgere conflitti tra la politica fiscale, di
competenza del Governo, e quella monetaria, di competenza della Banca
Centrale, ma la necessità sistemica di tenere unita la politica
nazionale, o confederale, costringerà comunque il Potere
legislativo/esecutivo e quello monetario ad una inevitabile
coordinazione in un quadro giuridico, tutto da costruire anche sulla
scorta delle normative precedenti gli anni ’80 ma senza riproporle sic
et simpliciter, che stabilisca diritti, doveri e limiti dei due poteri
nella loro reciproca cooperazione. Compresi, innanzitutto, i delicati
profili concernenti la nomina e la revoca del governatore dell’Istituto
di emissione che devono essere soggette, proprio per assicurare il
difficile equilibrio tra i due poteri senza che l’uno prevalga
arbitrariamente sull’altro e viceversa, a necessarie garanzie che
assicurino l’autonomia funzionale e tecnica ed al tempo stesso che essa
rimanga nell’alveo della responsabilità ultima dell’Autorità Politica.
(Continua)
Luigi Copertino
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