Germania, la svolta: dal mercatismo alla leva della spesa pubblica
Soprattutto per Paesi come l’Italia –
che non ha affatto, come troppo facilmente si dice e si fa credere, un
problema di debito pubblico ma invece ha un problema di bassa crescita
che, poi, crea quello dell’alto debito – serve maggiore flessibilità di
bilancio ma, attenzione!, al solo scopo di aumentare la spesa di
investimento e non per scopi di sapore elettoralistico, come certe
inutili riduzioni fiscali, che si rivelano solo palliativi buoni quali
specchio, appunto elettorale, per le allodole. La politica monetaria
espansiva deve coordinarsi ed accompagnarsi a politiche fiscali e di
bilancio altrettanto fortemente espansive, se si vuole uscire dalla
depressione in corso. Ma l’UE non ha alcuna Autorità Politica
Confederale. Al suo posto esiste soltanto un apparato tecnocratico
controllato dalla Germania per i suoi scopi autoreferenziali.
Come si è visto, nel momento nel quale
la Bce si accingeva ad annunciare l’estensione del programma in atto di
QE, nel marzo scorso, proprio dalla Germania si sono sollevate le più
forti critiche alla politica monetaria espansiva di Mario Draghi.
Critiche di cui si sono fatte interpreti le Casse di risparmio e le
Banche pubbliche regionali tedesche, riunite nelle associazioni della
Sparkassen e delle Landesbanken. Dietro tali critiche c’è lo zampino di
Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, un falco dell’austerità e
principale oppositore di Mario Draghi, nel Board della Bce, e prossimo
potenziale candidato tedesco alla successione dell’“italiano
spendaccione”. Infatti, nel rapporto annuale della Bundesbank, proprio
Weidmann si è detto contrario a nuovi alleggerimenti monetari perché, a
suo dire, «Le prospettive economiche nell’Eurozona non sono pessime come a volte vengono descritte»
(La Stampa del 09.03.2016). Affermazione, quella di Weidmann, che
testimonia non soltanto la cecità tedesca ma anche l’incapacità
germanica ad una leadership aggregante anziché egemonizzante. La critica
tedesca si spinge perfino a negare quel che nel linguaggio “felpato”
usato da Draghi è chiamata “disinflazione”. Per gli economisti
stipendiati dalle Casse di Risparmio tedesche «I rischi di deflazione nell’Eurozona sono molto bassi» (La Stampa, ibidem).....
.
L’alternativa proposta dalle banche
tedesche, per voce dei loro economisti, è sempre la stessa: riforme
strutturali negli Stati dell’UE ad alto debito ossia tagli alla spesa
pubblica anche di investimento, tagli alle pensioni, tagli alla spesa
sociale, tagli alle tutele sociali ed alla sanità e via dicendo su
questa linea. Mai che si indichino sacrifici per le banche, gli
industriali, gli speculatori. Le Casse di Risparmio tedesche temono che
con i tassi prossimi allo zero non potranno remunerare adeguatamente i
depositanti sicché, questo, provocherebbe la loro fuga verso altri
istituti bancari. Si dimentica, però, che in un panorama di bassi tassi,
i depositanti non troverebbero altrove interessi molto più alti. Quindi
la polemica delle Sparkassen tedesche non ha solidi fondamenti
economici svelandosi per quella che è ossia un attacco ad una politica
monetaria espansiva ritenuta troppo “euro-meridionale”. Come se, poi,
l’attuale politica monetaria della Bce di Draghi fosse davvero
favorevole esclusivamente per i popoli euro-mediterranei. Come già
rilevato il QE impone agli Stati dell’Europa del sud agende politiche
che vanno esattamente verso quella spending rewiew, che spesso diventa
spending crunch, tanto auspicata dalla Germania ordoliberale.
Viene invece taciuto dai critici
tedeschi il parziale cambio di passo della stessa Germania che sembra
aver abbandonato, di fronte all’impraticabilità dimostrata dalla crisi,
la sua procedente politica mercantilista, tutta basata sulle
esportazioni con la contestuale contrazione della domanda interna e dei
salari, al fine di rendere il costo unitario dei suoi prodotti più
competitivo nella concorrenza intra-Europea. Questo tipo di politica
mercantilista tedesca è quello che ha portato l’Europa al disastro.
Prigionieri di una moneta unica da essi non controllata, l’Italia e gli
altri Paesi dell’Eurozona non hanno potuto, come facevano in passato,
rispondere con la svalutazione del cambio monetario. Sicché anche gli
altri Paesi dell’eurozona sono stati costretti, nel tentativo di
favorire le proprie esportazioni, a seguire la via tedesca della
svalutazione interna della domanda e del lavoro. Con la conseguenza,
però, che in uno scenario di tal genere, nel quale tutti
contemporaneamente contraggono la domanda interna ed il costo del
lavoro, nessuno poi ha sufficiente potere, reciproco, d’acquisto per
comprare le merci esportate dagli altri. Come ogni politica
mercantilista, anche quella della Germania può funzionare solo in una
situazione neo-coloniale di asimmetria che sancisca il dominio
dell’economia tedesca sulle altre. Prima della crisi globale arrivata in
Europa, come crisi dei debiti sovrani, nel 2010, la situazione creatasi
nell’eurozona era esattamente quella asimmetrica del dominio germanico
nell’export, a senso unico, verso l’Europa del sud, la cui spesa privata
veniva sostenuta, per favorire l’acquisto di merci nordiche, dal
credito facile tedesco reso possibile dal surplus finanziario della
Germania. Ogni tentativo di introdurre elementi di simmetricità in
scenari di egemonia coloniale, come quello descritto, si risolve
inevitabilmente nella contrazione dell’originaria posizione di dominio
del più forte senza che, per questo, migliori la situazione dei più
deboli. A meno che la domanda ed il costo del lavoro interni ai Paesi
più forti non crescano indirizzando, però, il maggior potere d’acquisto
interno verso le importazioni, ossia verso le esportazioni dei Paesi
deboli.
Di fronte all’impossibilità di
perseguire nella sua precedente politica sfacciatamente mercantilista,
la Germania, compresa a seguito della crisi dell’euro l’antifona, ha,
appunto, cambiato in parte la sua politica economica. I dati confermano
che l’economia tedesca continua anche oggi a crescere. Una crescita
certo relativa che segna un chiaro rallentamento rispetto agli anni
precedenti la crisi. Ma proprio perché la crisi è diventata ormai
globale, la performance tedesca non è affatto disprezzabile. La novità,
però, sta nel fatto che questa crescita, pur modesta nello scenario
depressivo mondiale, non è più, come in precedenza, frutto della potenza
esportatrice tedesca. L’Ufficio Statistico della Germania ha reso
pubblici i dati del 2015 e del primo trimestre del 2016 evidenziando che
gli ordini dall’estero sono crollati significativamente, per
stabilizzarsi su livelli molto inferiori a quelli degli anni scorsi.
Questo perché è crollata la domanda estera dei prodotti tedeschi per
effetto della deflazione globale. Quindi l’unica spiegazione alla pur
modesta tenuta della crescita germanica deve essere cercata nell’aumento
della spesa per i consumi interni e della domanda interna, alla quale
va aggiunto il basso prezzo del petrolio e guarda caso – nonostante i
banchieri tedeschi se ne lamentino, come abbiamo visto – i bassi tassi
di interesse, conseguenza della politica monetaria espansiva della Bce, i
quali spingono più a spendere che a risparmiare.
La crescita interna del costo del lavoro
e della domanda è stata l’effetto della nuova politica salariale
tedesca che, anche in questo virando rispetto alle riforme Hartz del
2003, è tornata ad essere espansiva perché, nel patto di governo di
“grande coalizione”, i socialdemocratici hanno ottenuto l’aumento del
salario minimo. L’accresciuto potere d’acquisto per le fasce medio-basse
della popolazione tedesca se ha certamente anche contribuito alla
crescita delle importazioni, avvantaggiando un po’ le esportazioni
estere, ha d’altro canto avuto maggiori effetti sull’aumento della
domanda interna e quindi nella contrazione delle esportazioni
germaniche. Questo diverso scenario ha imposto perfino ad un falco
dell’austerità finanziaria come Wolfgang Schäuble, il paralitico
ministro delle finanze tedesco che è stato il principale sostenitore del
rigorismo eurocratico nei confronti del dramma greco, che proprio in
questi giorni sta tornando in primo piano, di sopportare obtorto collo
una politica di bilancio in forte espansione – nel 2016 è previsto un
aumento della spesa pubblica tedesca del 3,5% – innanzitutto per far
fronte all’arrivo dell’onda migratoria la quale comporterà la
costruzione di nuove abitazioni e di nuove scuole e la necessità di
assumere nuovo personale medico e docente. Schäuble, per non smentirsi,
ha già dichiarato che l’aumento della spesa pubblica è possibile senza
fare deficit spending e che quindi il bilancio tedesco chiuderà lo
stesso in pareggio, secondo i dettami dogmatici dell’ordoliberismo
friburghese che è la dottrina economica ufficiale della Germania. Ma,
dichiarazioni ideologiche a parte, si dovrà poi verificare se sarà
possibile a Berlino far fronte al maggior intervento statuale senza
deficit spending. Perché, in realtà, la svolta nella politica economica
tedesca costituisce la tacita e silenziosa ammissione che
l’ordoliberismo – o la sua applicazione ciecamente dogmatica – non ha
funzionato.
Uno storico dell’economia, di formazione
cattolico sociale, Giulio Sapelli, docente all’Università Statale di
Milano, fortemente critico verso l’ordoliberismo, ci ha spiegato i
motivi profondi del fallimento di quel modello: «… vi è un problema assai … grave – egli ha scritto su Il Messaggero del 10 marzo 2016 –
ed è quello della mancata crescita economica e quindi della mancata
benemerita ascesa del tasso di inflazione (l’inflation targeting di cui
discettava Ben Bernanke). Di più: la deflazione continua invece a
manifestarsi, lasciando sgomento ogni monetarista che crede ancora nel
ruolo salvifico della moneta. La circolazione monetaria si rivela essere
non solo un segmento – e non il tutto – dell’accumulazione
capitalistica, ma addirittura diventa ostacolo ad essa quando si separa
dall’economia reale. E’ ciò che è accaduto sino a ora con eccessi di
liquidità uniti a eccessi di risparmio in una tipica trappola che
avevamo già visto scattare in Giappone venticinque anni or sono (…).
L’esempio della Federal Reserve, che per fronteggiare la crisi da subito
ha attivato meccanismi d’intervento sia acquistando a manetta titoli di
Stato sia sostenendo direttamente il sistema bancario, è stato imitato
probabilmente con troppo ritardo. A questo punto se davvero si vuole che
si innesti un percorso di crescita sostenibile occorre favorire un
massiccio processo di investimenti onde creare nuovi posti di lavoro
così da porre su nuove basi la domanda interna. Proseguire sulla strada
sin qui percorsa, se corrobora l’attività della Bce, porterà fatalmente a
restringere sempre più le possibilità di ripresa. Non v’è dubbio che
sino a oggi il Quantitative easy e le politiche di tassi negativi
abbiano prodotto una temporanea difesa dinanzi all’esplodere di una
crisi anzitutto finanziaria di grandi proporzioni, ma di fatto hanno
consentito di guadagnare tempo, non di andare alla radice del male. Che
non è oscuro: il male è l’eccesso di risparmio prodotto da un eccesso di
speculazione che ha puntato tutto sulle esportazioni, alla fine persino
contribuendo a provocare la frenata della stessa Cina. E’ dunque
fallito il modello della crescita fondata sull’esportazione, tanto cara
alla Germania, a discapito della domanda interna. Ed è dunque fallito –
anche a causa dell’inerzia di certi governi – pure il modello che Draghi
aveva condiviso in una qualche misura sperando di occultarlo con le
eterodossie monetarie. La verità è che le politiche monetarie da sole
non riescono a invertire il processo di stagnazione secolare che abbiamo
iniziato a percorrere con l’unificazione monetaria europea, con la
Germania che trascina nel suo surplus commerciale una catena di nazioni
che finanziano a debito ciò che non possono più finanziare con il lavoro
dipendente ben pagato e una politica di valorizzazione del profitto
industriale anziché della rendita finanziaria. L’ora della verità è
infine giunta, ma sarebbe un grave errore addossare la colpa a Draghi:
non è stato, né poteva esserlo, l’Arcangelo San Michele, ma ora non
diventi il cavaliere dell’Apocalisse. Egli è fautore di una politica
economica senza sbocco che in ogni caso è stata ed è meno negativa
dell’ordoliberalismo e della deflazione sostenuta dalla Germania. La
politica tedesca poteva e doveva essere contrastata da una politica come
virtù dei migliori ossia del contemperamento e non dell’eliminazione
degli interessi nazionali, in un’Europa che invece con favole
tecnocratiche e giochi di specchi ha offeso e umiliato i principi di una
libera e forte crescita economica sull’altare di una filosofia
dell’algoritmo. Molti l’hanno condannata a parole, compreso il premier
Matteo Renzi, ma non sono riusciti a imporre nei fatti il suo
superamento, a cominciare dalla non attuazione del fantomatico Piano
Juncker che è solo servito a far rieleggere Juncker stesso contro il
volere degli inglesi più scettici che mai dinanzi alle alchimie
lussemburghesi e le incertezze subalterne delle socialdemocrazie
europee. Qualsiasi decisione possa assumere … la Bce deve essere chiaro
che essa deve essere pertinente, se vogliamo tornare a crescere, con un
insieme di politiche anti-austerità che devono conservare il nocciolo
del processo unitario europeo, ossia la moneta unica, ma devono
rimettere in gioco i Trattati restituendo … libertà di bilancio alle
nazioni europee, pena il disfacimento dell’Europa medesima».
Guido Carli, banchiere umanista e momentaneo katéchon
Giulio Sapelli, dunque, indica in una
riforma confederale, piuttosto che federale, delle Istituzioni europee,
con spazi di autonomia per le singole nazioni, la via da seguire per
uscire dal Trattato di Maastricht come attualmente disegnato. Non
vogliamo entrare nel merito del confronto tra posizioni rigorosamente
nazionaliste, ossia uscita dall’euro, e posizioni europeiste ma
riformatrici degli attuali assetti istituzionali dell’UE. Entrambe le
posizioni colgono parte della verità. Il problema della sovranità, in un
mondo globale, è quello che essa deve essere riaffermata su livelli più
alti senza per questo venir meno ai livelli più bassi. La sovranità, in
altri termini, dovrebbe contemperare, sussidiariamente, le singole
nazioni e l’ipotetica Confederazione europea. Forse la gollista “Europa
delle Patrie” o, meglio ancora, il modello tradizionale
romano-cristiano, specificatamente europeo, dell’“Imperium”, ossia
unità nella diversità, possono essere una sorta di stella polare per la
riforma dell’UE.
Giuseppe Guarino, già ministro delle
finanze e professore di diritto internazionale, come protagonista della
stagione che portò alla stipula del Trattato di Maastricht, nel 1992, è
andato ripetendo in tutte le sedi in questi anni, scrivendo anche
pregevoli testi in argomento, che quel Trattato è stato violato e
tradito nei successivi regolamenti eurocratici di applicazione che ne
hanno stravolto lo spirito di fondo, il quale non mirava ad alcuna
unione monetaria asimmetrica come quella poi imposta dal duopolio
franco-tedesco. Secondo Guarino «L’euro di oggi è un euro falso perché non disciplinato dalle norme del Trattato, ma da norme che sono contro il Trattato»
(Il Messaggero del 27.03.2016). Norme regolamentari e quindi
gerarchicamente subordinate ad esso, che però lo hanno illegittimamente
travolto e stravolto.
Esiste una storia diversa degli accordi
che portarono al Trattato di Maastricht, una storia mai raccontata e
celata ai più. Una storia che vede quale protagonista l’italiano Guido
Carli. Politico, tecnico e banchiere centrale di idee e sensibilità
molto sociali, eredità della sua giovanile formazione agli ideali
nazionali e sociali degli anni ’30, egli fu tra i primi assertori in
Italia, contro la teoria quantitativa, del carattere “endogeno” della
moneta. All’indomani della firma del Trattato di Maastricht, dichiarò
pubblicamente, con visibile soddisfazione, che era stata vinta la
battaglia – da lui e da altri ingaggiata – contro la linea, definita
“cartaginese” con evidente riferimento alle pratiche cultuali fenice al
dio Baal le quali contemplavano sacrifici umani e contro le quali
tuonavano i profeti biblici, perseguita dall’asse olandese-tedesco.
Infatti Guido Carli era riuscito ad imporre nel testo del Trattato una
visione dell’euro che lo voleva frutto della politica, delle idee e,
soprattutto, delle identità nazionali. Una concezione che escludeva
obblighi o corsi forzosi, rientri deflattive a marce forzate del debito e
rigide manovre correttive: ossia esattamente i “compiti a casa” e le
“riforme strutturali” che l’eurocrazia germanica oggi impone a tutti gli
altri. Una concezione dell’Europa, quella inseguita da Guido Carli,
fondata sulla solidarietà tra i suoi popoli nella crescita civile,
occupazionale, economica, comune e reciproca.
Guido Carli apparteneva alla tipologia
dei “banchieri-umanisti” che alla competenza tecnica affiancano profonde
conoscenze filosofiche, giuridiche e letterarie. Si occupava anche di
storia, diritto, filosofia. Sosteneva che nel carattere, nella storia,
nel diritto devono ricercarsi le “strutture profonde” dei popoli, le
quali sole possono, poi, dare senso e direzione alle forze sociali ed
economiche. Nella sua visione, l’economia non ha alcuno spazio senza la
priorità della politica intesa nella sua accezione più alta, nobile,
“platonica”. Senza la politica, egli affermava, non può esistere neanche
il mercato. Con riferimento critico alla cultura economica tedesca,
soleva ricordare che una concezione a-politica o impolitica del mercato
porta inevitabilmente a «… conseguenze gravi (come) quando un solo paese … (pretende di imporre) la propria politica in vista dell’unico obiettivo della stabilità monetaria». Carli ragionava tenendo presente anche la storia e non solo la contabilità.
Angelo Polimeni ha ricostruito, nel suo
libro “Non chiamatelo euro”, questa visione alternativa della moneta
europea che Guido Carli, insieme a Giuseppe Guarino, portò avanti e che,
fino a quando egli ha calcato la scena politica, ha costituito un freno
alla visione ordoliberista germanica. Se la speranza di un’Europa
politica dei popoli è naufragata è perché, come ha ricostruito il
Polimeni, anche sulla scorta della testimonianza dell’ormai anziano
Guarino e della nipote di Guido Carli, il Trattato di Maastricht, come
era stato pensato secondo il progetto di Guido Carli, ha subito uno
stravolgimento esegetico che ne ha progressivamente tradito e sostituito
lo spirito solidarista in favore delle mire egemoniche tedesche
assecondate dalla prospettiva impolitica di cui è permeata la
tecnocrazia di Bruxelles.
Romana Liuzzo, nipote del banchiere e
presidente dell’omonima Associazione, in un intervento apparso su Il
Messaggero del 27 marzo scorso, ha così ricostruito l’accaduto: «…
nella totale assenza di dibattito pubblico e senza passare per le
istituzioni democratiche … Tutto o quasi si consuma in un breve lasso di
tempo, dal ’95 al ’97, con la proposta tedesca di dare vita ad un patto
di stabilità con sanzioni economiche per i paesi poco virtuosi. Mio
nonno è morto da pochi anni e dopo di lui l’Italia assume un
atteggiamento di progressiva soggezione rispetto all’Europa. Scrive
Polimeno: “La Germania insomma, ora che Guido Carli, con tutta la sua
autorevolezza, oltre che competenza, non è più della partita vuole
assolutamente smontare la filosofia portante del Trattato di
Maastricht”. E ci riesce. L’obbligo di sanzioni economiche viene
inserito nel Trattato senza neppure una ratifica dei parlamenti
nazionali. Nel silenzio complice della politica, l’Europa ha imboccato
una strada senza uscita, quella dell’austerità. Lo spirito di Maastricht
non esiste più e con quello se ne è andato il testamento di mio nonno
e, temo, le speranze degli italiani. (…) la colpa non è dei governi che
hanno portato alle conclusioni di Maastricht ma delle nuove leadership
che non hanno espresso uomini adeguati a proseguirne lo spirito e che si
sono appiattiti invece alle logiche meccaniche dei bilanci». La
Liuzzo chiama questo appiattimento “euro tecnicismo” che è, appunto,
l’arma tecnocratica germanocentrica dei falchi come Wolfgang Schäuble.
Dalla prima alla seconda globalizzazione
La prima globalizzazione operò tra il
1870 ed il 1914. Gli storici chiamano quel periodo “Belle Epoque”. Un
periodo di grandi trasformazioni sociali connessi con la “seconda
rivoluzione industriale” che provocò anche notevoli fenomeni migratori,
dalle campagne verso le città come anche dall’Europa verso l’America. Le
promesse dell’epoca erano le stesse di quelle di oggi: pace globale,
libero scambio mondiale, aumento diffuso della ricchezza, benessere
universale, cessazione del conflitto sociale. Insomma il “paradiso in
terra”. Infatti anche quel primo globalismo aveva le sue radici
culturali nelle correnti ereticali del millenarismo, del sogno della
realizzazione in termini mondani, ossia intrastorici e non post-storici,
del Regno di Dio. La differenza con l’antico millenarismo stava nel
fatto che, ora, il Regno di Dio era diventato il “Regnum Hominis”.
Sappiamo come questo sogno è naufragato
nelle trincee del Carso e della Somme. In quelle trincee l’Europa,
ancora formalmente, cristiana scomparve definitivamente nel bagno di
sangue della sua gioventù e nel crollo delle ultime vestigia imperiali.
Seguirono i totalitarismi nazista e comunista nonché le rivoluzioni
sociali e nazionali, ossia i fascismi, e, dopo il breve istante dei
“ruggenti anni venti” nei quali sembrò, prima della crisi del 1929, che
il sogno globalista potesse ancora realizzarsi, la nuova economia
statual-interventista scientificamente preparata da J.M Keynes e
politicamente impostata non solo dal New Deal di F.D. Roosevelt ma anche
dai regimi fascisti come nel caso italiano. Si tornò al protezionismo
per difendersi dagli effetti della crisi del ’29 ma, al tempo stesso, si
iniziò a pensare ad assetti politici più ampi. Se, infatti, non si
ragionava più in termini globali, tuttavia gli scenari geopolitici
parlavano il linguaggio delle aggregazioni tra nazioni vicine per
affinità storiche, culturali o anche ideologiche.
Il concetto, introdotto nella
pubblicista gius-internazionalista da Carl Schmitt, di “Grossraum”, del
“grande spazio”, fece scuola. Al tramonto dello Stato nazionale, inteso
come realtà politico-spaziale territorialmente delimitata, un tramonto
evidente per Carl Schmitt già nella realtà degli anni ’30 del XX secolo e
tale da cantare il de profundis al nazionalismo provinciale, si tentò
di rispondere mediante aggregazioni continentali tra Stati affini. Il
“Nuovo Ordine Europeo” auspicato dall’Asse Roma-Berlino si poneva
esattamente in questa prospettiva del Grande Spazio e per esso migliaia
di uomini combatterono e si sacrificarono sui campi di battaglia, nel
secondo conflitto mondiale. Ma anche il Patto Molotov-Ribbentrop, che
delineava le sfere di influenza, nell’Europa dell’est, tra la Germania
nazista e la Russia sovietica, rientrava nella logica del grande spazio,
come del resto nella stessa logica deve essere annoverata l’intesa
angloamericana (con l’aggiunta tardiva della Francia) tra le “Nazioni
Unite” poi sviluppatasi negli accordi di Bretton Woods che regolarono
l’economia dell’Occidente fino al 1971 ossia nel periodo del confronto
con l’altro “grande spazio” formatosi, dopo il 1945, in Oriente ossia
quello tra Paesi comunisti del Patto di Varsavia.
Nel mondo bipolare uscito dal secondo
conflitto mondiale, la stessa Comunità Economica Europea, la Cee,
antesignana dell’Unione (Monetaria) Europea, pur stabilmente inserita,
fino al 1989, nel solo versante occidentale, corrispondeva al concetto
del “grande spazio” benché, nel suo caso, in senso del tutto impolitico,
preparando, in tal modo, il disastro di una unione concepita solo come
mercantile, monetaria e bancaria e senza alcuna prioritaria Autorità
Politica confederale.
La questione cruciale per tutti gli
aggregati spaziali che andarono delineandosi sin dagli anni ’30, anche e
forse soprattutto per quelli liberal-democratici vista la loro pretesa
umanitaria di “giustizia”, sta tutta nel fatto che detti aggregati si
sono formati inevitabilmente intorno ad una Potenza egemone, ad una
leadership nazionale più forte delle altre che subordina i partner ai
propri strategici interessi. E’ stato così nel caso dell’Europa
hitleriana, la cui strategia politica ed economica, anche prima della
guerra, era finalizzata all’egemonia tedesca sugli stessi alleati (ed a
questo servì lo stesso, sotto altri profili intelligente, strumento
della definanziarizzazione, mediante il ricorso al baratto tra nazioni,
degli scambi commerciali tra Germania ed alleati). E’ stato così nel
caso di Bretton Woods che sancì l’egemonia americana mediante
l’imposizione del dollaro, contro il parere di Keynes, quale moneta di
riserva per gli scambi commerciali tra Paesi dell’Occidente. Lo stesso
dicasi per il Patto di Varsavia fondato sull’egemonia della Russia
sovietica nonostante la dichiarata egalitaria fratellanza tra i popoli
socialisti. Ed anche nel caso dell’Unione Europea, grazie anche al vuoto
politico che ne ha visto la nascita e lo sviluppo, alla fine,
nonostante ogni retorica democratica, ha prevalso l’egemonia, ancora una
volta, della Germania in versione ordoliberale che dell’austerità ha
fatto lo strumento di dominio e di ricatto verso gli altri europei:
almeno fino a quando durerà.
La radice millenarista della concezione
globalista non scomparve nel periodo 1914-1980, ossia nell’epoca dei
“Grandi Spazi”. Essa continuò, carsicamente, a sostenere l’ideologia dei
due grandi blocchi, quello liberal-capitalista occidentale e quello
comunista orientale. Dopo il 1989 essa tornò di nuovo sulla scena
sull’onda della prospettiva neo-hegeliana, annunciata nel 1990 da
Francis Fukuyama, della “fine della storia”. Al politologo
nippo-americano replicò, immediatamente, Samuel Huntington il quale, con
evidente disincanto, additò, al contrario, nel profilarsi dello scontro
tra le sei civiltà, quindi i sei grandi spazi, che calcano attualmente
la scena della seconda globalizzazione, il futuro dell’umanità (qui non
prendiamo in considerazione le aporie di Huntington nel definire i
contorni delle civiltà e soprattutto nel definire i contorni della
supposta “civiltà occidentale euroamericana” ma dichiariamo tutta la
nostra distanza dalle strumentali costruzioni huntingtoniane circa detti
contorni). Tuttavia nonostante Huntington, la seconda globalizzazione,
iniziata in sordina a partire dagli anni ’80 del secolo scorso e giunta a
maturazione tra il 1989 ed il 2008, ha riproposto lo stesso scenario
della prima: grandi trasformazioni sociali accompagnate dalle medesime
promesse di pace globale, libero scambio mondiale, aumento diffuso
della ricchezza, benessere universale, cessazione del conflitto sociale –
insomma, ancora una volta, la promessa del “paradiso in terra” –
tuttavia indotte, questa volta, non più dalla industrializzazione, come
nella prima globalizzazione, ma della “rivoluzione tecnologica
informatica” che ha fortemente contribuito, sotto il profilo
tecnologico, alla deindustrializzazione ed alla finanziarizzazione
dell’economia globale. Non sappiamo ancora se anche la seconda
globalizzazione naufragherà in un qualche devastante conflitto
planetario, ma sappiamo già che l’utopia globalista, anche questa volta,
è stata travolta dalla crisi economica mondiale, esattamente come nel
1929.
Insieme a quella economica va, però,
profilandosi un’altra crisi, quella indotta dai nuovi fenomeni migratori
di massa. Se durante la prima globalizzazione le migrazioni seguirono
il percorso campagne verso città ed Europa verso America, ora, anche a
causa della dissennata politica americana nel nostro Vicino Oriente, il
percorso è dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.
Ha scritto Giorgio Arfaras su La Stampa del 9 marzo scorso: «…
si prendano i numeri del periodo che è intercorso fra la caduta del
Muro di Berlino e l’apice dell’ottimismo poco prima della crisi in
corso. Quindi i numeri dal 1988 al 2008. Osserviamo il tasso di crescita
cumulato dal reddito dei più poveri, di chi sta in mezzo, e dei più
ricchi. I poveri dei Paesi mai emersi – come in Africa – sono rimasti
tali, mentre i poveri dei Paesi emergenti – come in Cina – non sono più
tali, avendo beneficiato di una crescita spettacolare del proprio
reddito. Il ceto medio dei Paesi ricchi – quello dei Paesi occidentali e
del Giappone – ha avuto un reddito stagnante (ma ha conservato,
quando ha conservato, il precedente tenore a debito ossia indebitandosi
con un sistema finanziario liberalizzato e globalizzato, nda),
mentre i ricchi dei Paesi sia emersi sia emergenti sono diventati ancora
più ricchi. I primi venti anni della Seconda Globalizzazione … non ha
favorito gli africani, ha favorito i cinesi, non ha favorito il ceto
medio dei Paesi già ricchi, ed ha fatto diventare ancora più ricco chi
già aveva un reddito elevato. Perciò la classe media non è stata
penalizzata a livello mondiale – quella cinese e di molti Paesi asiatici
è molto più ricca – ma lo è stata solo nei Paesi che – agli inizi della
seconda globalizzazione – erano già ricchi. Anche se il reddito del
ceto medio dei Paesi ricchi non è cresciuto, il suo livello è ancora (e
di molto) maggiore di quello dei Paesi poveri. Si ha quindi un incentivo
a migrare dai Paesi poveri a quelli ricchi, Circa l’ottanta per cento
della popolazione della Costa d’Avorio vive peggio del cinque per cento
degli italiani più poveri. I tedeschi poveri vivono meglio degli
italiani poveri, ma i tedeschi e gli italiani hanno circa lo stesso
reddito man mano che diventano più ricchi. L’“arbitraggio” in prima
battuta fra Costa d’Avorio e Italia, e poi fra Italia e Germania è
perciò economicamente razionale per un abitante della Costa d’Avorio.
Anche se resterà sempre povero, vivrà meglio in Italia e ancor meglio in
Germania che nel proprio Paese. E se fosse molto ricco nel Paese
d’origine? Avrebbe comunque un reddito in linea con quello dei numerosi
italiani meno ricchi. Con queste differenze di reddito fra Paesi – i
poveri italiani vivono molto meglio dei poveri della Costa d’Avorio, e
quando anche sono meno poveri hanno lo stesso reddito dei ricchi della
Costa d’Avorio – sarà difficile che gli sbrachi si fermino. Le ondate
migratorie si possono fermare con lo sviluppo economico. Questa è una
soluzione che – semmai si materializzasse – richiederebbe molto tempo.
Non è facile che l’abitante della Costa d’Avorio stia nel suo Paese
scommettendo sulla crescita che potrebbe palesarsi in venti anni.
Intanto emigra, e poi si vede. Lo sviluppo economico trasforma
l’economia, sorgono nuovi settori, si chiedono nuove competenze. Si
pensi quanto l’informatica diffusa abbia trasformato le prenotazioni dei
viaggi, degli alberghi, gli sportelli bancari, e via dicendo. Prima o
poi si avrà l’impatto dell’informatica anche nel settore pubblico. La
“grande trasformazione” oggigiorno è la meccanizzazione della
manifattura (avviata da tempo) e dei servizi (in corso). La grande
trasformazione di ieri nell’agricoltura (l’uso dei fertilizzanti e dei
trattori) spinse i contadini ad emigrare nella città per lavorare nelle
fabbriche. Ma gli operai e gli impiegati di oggi dove possono andare? In
conclusione, il malessere diffuso intorno alle condizioni di vita del
ceto medio dei Paesi ricchi e intorno alle ondate migratorie ha
fondamento. Ed ecco che emerge la tentazione di trovare la soluzione più
semplice, quella di erigere muri e tornare al protezionismo».
La conclusione di Arfaras pone un
drammatico problema epocale. L’automazione della produzione produrrà
milioni di disoccupati tra il ceto operaio ed il ceto medio. Il processo
iniziò in sordina negli anni ’80 e con la globalizzazione sta ora
esplodendo. Fino a quando la questione interessò solo il ceto operaio,
impiegati e liberi professionisti se ne disinteressano continuando ad
appoggiare, elettoralmente, le politiche globalizzatrici dei governi
liberali. Ora però che il fenomeno tocca anche il ceto medio
quest’ultimo reagisce invocando protezionismi ed abbandonandosi alla
tentazione xenofoba. Tuttavia una reazione del genere sarà del tutto
inutile di fronte a processi in atto, certo anche voluti – la
globalizzazione è stata avviata firmando trattati internazionali – ma
sicuramente difficili da arrestare.
La questione, pertanto, deve essere
affrontata sotto un altro profilo ossia ponendo ai globalisti la
domanda: se l’automazione contrarrà i posti di lavoro, e di conseguenza
il reddito da lavoro, chi mai comprerà i prodotti che escono dalla
industrie robottizate? In altri termini, il globalismo va inchiodato al
dato di fatto che l’automazione comporta la contrazione della domanda
aggregata, la quale è il vero motore dell’economia perché è la domanda a
creare l’offerta e non il contrario, sicché l’automazione porterà, alla
fine, al tracollo del capitalismo terminale. Tanto è vero che, a
sinistra, c’è già chi pensa, come Tony Negri, che l’automazione sarà la
via post-moderna per la realizzazione del comunismo mondiale e la
rivincita di Marx.
Comunque sia, l’automazione comporterà
problemi di non poco conto perché, a differenza delle trasformazioni
tecnologiche intervenute nel passato, quelle oggi in atto non producono
nuovi posti di lavoro e nuove professioni sostitutive di quelle che
vengono cancellati dalle innovazioni tecnologiche. Se in passato i
vetturini furono sostituiti dai macchinisti e le carrozza a cavallo dal
treno, oggi il lavoro industriale, un tempo manuale, viene automatizzato
senza che nascono nuove competenze in misura eguale a quelle che
scompaiono: per far funzionare una fabbrica automatizzata bastano una
decina di tecnici specializzati al posto di centinaia di impiegati ed
operai resi del tutto inutili dall’automatizzazione. Né c’è seria
speranza che i posti persi possano essere recuperati nell’indotto,
perché l’automazione ha proprio questo come sua essenza: rendere inutile
il lavoro umano per sostituirlo definitivamente con il robot.
Di fronte ad uno scenario come questo,
si dovrà necessariamente prendere in considerazioni sistemi di
redistribuzione della proprietà e del reddito alternativi. Si dovrà in
primis pensare alla diffusione più ampia possibile della proprietà
industriale della produzione automatizzata. Qui sicuramente i comunisti
si faranno avanti intravvedendo nella contraddizione del capitalismo
terminale l’occasione storica della abolizione della proprietà,
inizialmente mediante la statizzazione e poi mediante la mera scomparsa
della proprietà stessa insieme allo Stato dissolti, secondo la
prospettiva marxiana, entrambi nell’“umanità nuova socialista” operante
sulla rete globale della redistribuzione spontanea del profitto della
produzione associata. Ma questa utopica soluzione sarebbe più dannosa
del male al quale così si crede di rimediare ed aprirebbe, di nuovo, le
porte ad un esperimento sociale distruttivo e “luciferino” quanto il
capitalismo autoreferenziale che pretenderebbe di sostituire e del quale
invece è filosoficamente figlio.
La soluzione da perseguire, al
contrario, è quella del più ampio distributivismo proprietario, della
più ampia possibile partecipazione popolare alla proprietà delle
industrie automatizzate. Soluzione che mette in gioco immediatamente la
Dottrina Sociale Cattolica ma anche la tradizione politica del
comunitarismo e del patriottismo sociale. Le industrie automatizzate
dovranno essere trasformate in complessi comproprietari appartenenti a
tutti i membri delle rispettive comunità territoriali, locali e/o
nazionali, di riferimento in modo che il profitto del ciclo produttivo
sia redistribuito tra gli associati per diventare reddito a sostegno
della domanda aggregata che crea la stessa offerta in futuro, appunto,
automatizzata. Quindi non abolizione della proprietà ma la sua più ampia
e partecipata diffusione popolare, in tutte le più idonee forme
comproprietarie e di condivisione (“cum” ossia insieme: essere
proprietari insieme di un bene e dividerlo assieme).
Al fianco del distributivismo
comproprietario dovranno elaborarsi forme di reddito sociale garantito,
tanto nella versione dei voucher per l’accesso ai servizi che in quella
del reddito minimo o in quella del reddito di cittadinanza (non si
tratta della stessa cosa ma di istituti tra loro differenti). In tal
modo, ciascuno avrà un reddito spendibile a sostegno della domanda
aggregata ed al tempo stesso potrà eventualmente scegliere, senza essere
soggetto al ricatto della necessità, a quale tipo di attività vorrà
dedicare la propria vita. Ma, al fine di non cadere nell’utopia, non si
deve dimenticare che qualunque forma di reddito sociale garantito non
può prescindere dal controllo politico della produzione ed erogazione
della moneta, sia di quella legale che di quella bancaria, in modo che
la redistribuzione reddituale avvenga secondo andamenti guidati
endogeneticamente dalla stessa domanda e non sia imposta
esogeneticamente dall’arbitrio di interessi settoriali dal lato
dell’offerta---------.
(Continua)
Luigi Copertino
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