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Di Paolo Borgognone
Sembra ormai certo il profilarsi, alle elezioni presidenziali statunitensi di novembre, del “duello” tra il miliardario populista e filosionista Donald Trump, tycoon con un passato da sfacciato playboy e pretese da tronfioself made man artefice del “sogno americano” di successo individuale, e la miliardaria “democratica” e filosionista Hillary Clinton, la cui vicenda politica non può che attribuirle il palmares di regista di tutte le guerre “umanitarie” e le sovversioni “colorate” organizzate e sostenute dagli Stati Uniti nel momento in cui alla Casa Bianca sedevano, ai posti di comando, esponenti Democrats. Hillary Clinton, dal 2011 in avanti ha infatti espresso il proprio favore al movimento egiziano di Piazza Tahrir, mediaticamente egemonizzato da blogger filoccidentali addestrati presso i think tankstatunitensi per la promozione della democrazia all’estero ma politicamente dominato dai Fratelli Musulmani, agli sparuti gruppi di controrivoluzionari neoliberali scesi in piazza, a Mosca e San Pietroburgo, per una «Russia senza Putin» e ai cosiddetti «giovani rivoluzionari» libici e siriani, in realtà né libici né siriani, ma mercenari jihadisti spesso di origine saudita, giordana e caucasica, animanti le “rivoluzioni democratiche” (leggasi, colpi di Stato violenti successivamente radicalizzatisi in veri e propri conflitti per procura sul modello nicaraguense e ucraino) a Bengasi (Tripoli non fu infatti nemmeno sfiorata dalla “rivolta” anti-Gheddafi del 2011) e nella provincia sunnita siriana più profonda. Nel 2011 Hillary Clinton, allora segretario di Stato Usa, arrivò ad affermare che se Bashar al-Assad si fosse rassegnato a “democratizzare” la Siria, ossia avesse ceduto alle pressioni, esterne e interne, miranti alla rottura dei legami di alleanza tra Damasco, Teheran, Mosca e Hezbollah, le manifestazioni inscenate per le strade di Daraa e Homs contro il “regime” «sarebbero cessate un attimo dopo». Curiosa dichiarazione da parte di un soggetto e attore politico che aveva l’ardire di proclamarsi “esterno” alla crisi siriana in corso. Curiosa, è vero, ma nemmeno troppo se si tiene presente il contesto geopolitico caratterizzato dalle velleità egemoniche nordamericane....
In questo senso, il ruolo degli Usa nell’orchestrare e nel gestire il conflitto politico armato in Ucraina, in funzione anti-russa, a partire dal 2013 (Euromaidan e guerra coloniale di Kiev nel Donbass), è oltremodo esemplare. A questo proposito, per coerentizzare la serie di destabilizzazioni made in Usa che hanno dato avvio al conflitto ucraino, è interessante leggere e analizzare il nuovo libro di Giacomo Gabellini, giovane redattore delle riviste Scenari Internazionali ed Eurasia, dal titolo Ucraina. Una guerra per procura(Arianna Editrice, Bologna, 2016). Nel testo, Gabellini riannoda i fili della summenzionata serie di destabilizzazioni anti-ucraine e anti-russe orchestrate, dagli Usa e da determinati Paesi della Ue, a Kiev sin dal 2004, ossia ai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione”. Scrive infatti Gabellini: «La decisione statunitense di appoggiare Juščenko fu probabilmente presa nell’agosto del 2004, quando, a circa tre mesi dalle elezioni, il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, si era recato in Crimea per discutere con il suo omologo Marčuk del futuro politico del Paese dopo l’uscita di scena di Kučma», l’allora presidente ucraino, genericamente quanto frettolosamente definito “filo-russo” dai principali media occidentali. A seguito di questo accordo, siglato dai ministri della Difesa dei rispettivi Paesi, prosegue Gabellini, «Ong quali National Endowment for Democracy, Freedom House, Konrad Adenauer Foundation, Albert Einstein Institution, Carnegie Endowment for International Peace e Open Society (di George Soros) e i movimenti locali Nasha Ukraina (“Nostra Ucraina”), Pora (“È ora!”) e Chysta Ukraina (“Pulisci l’Ucraina”) riuscirono a mobilitare migliaia di giovani e riuscirono a far affluire in Ucraina un gran numero di osservatori internazionali selezionati tra le fila dello Ukrainian Congress Committee of America, che riuniva un nucleo di ucraini residenti negli Stati Uniti animati da una profonda ostilità verso la Russia; dell’European Network of Electoral Monitoring Organizations, che raggruppava oltre 1000 attivisti appartenenti a Ong dell’Europa orientale finanziate per vie traverse dagli Usa e dalla Gran Bretagna». Addirittura, secondo quanto scritto da Gabellini facendo emergere una pericolosaconnection politica tra golpisti neoliberali d’assalto e reclutatori di jihadisti in funzione anti-russa in Asia Centrale, tra gli animatori della “rivoluzione arancione” dell’autunno 2004 vi fu un’organizzazione ucraino-americana denominata «Us-Ukraine Foundation, fondata nel 1991 da Kateryna Čumačenko, consorte di Viktor Juščenko ed ex dipendente del Dipartimento di Stato sospettata di intrattenere stretti legami con la Cia a causa del suo impiego presso l’Ufficio diritti umani e affari umanitari, che si era impegnato a garantire il corretto funzionamento del sistema di reclutamento di “combattenti per la libertà” messo in piedi dall’amministrazione Carter con la collaborazione di Arabia Saudita e Isi pakistano, per sostenere i mujaheddin in lotta contro i sovietici in Afghanistan». Da notare come il Consiglio d’Europa, nel 2004, si fosse rifiutato di soffermarsi sul «conflitto di interessi che emergeva chiaramente con l’attribuzione ai membri del Us-Ukraine Foundation, l’ente fondato dalla moglie di Juščenko, della qualifica di osservatori indipendenti, ma si spinse a richiedere a Kiev di “modificare le norme elettorali in modo di consentire alla Ong di prendere parte al processo elettorale con uno status equivalente a quello degli osservatori internazionali e dei rappresentanti dei candidati”». “Non male”, come strategia, da parte della Ue, se si pensa che la Us-Ukraine Foundation era tutto fuorché una “Ong indipendente” bensì un attore politico parte in causa del conflitto, in chiave naturalmente filoamericana e russofobica. La serie di pilotate destabilizzazioni anti-ucraine e anti-russe a Kiev, sulla scorta di quanto accaduto nel 2004 con la “rivoluzione arancione”, conobbe un’accelerazione nell’autunno del 2013, nel momento in cui, scrive Gabellini, «il governo Usa incaricò l’ambasciatore [in Ucraina, nda] Pyatt di attivare i canali di comunicazione con le forze d’opposizione per esacerbare le divergenze interne al Paese». È in questo quadro di riferimento che dev’essere contestualizzato l’arcinoto «Fuck the European Union!» pronunciato dal “falco liberale” Victoria Nuland, «consorte dell’influente neocon Robert Kagan e funzionario al Dipartimento di Stato con delega agli affari europei ed eurasiatici, di fronte agli sforzi della Merkel e di Hollande per trovare una soluzione diplomatica al problema ucraino». Victoria Nuland era il plenipotenziario di Obama in Ucraina, nonché colei che, di fronte al Press Club di Washington, dichiarò apertamente che gli Stati Uniti, nel corso degli anni, avevano investito 5 miliardi di dollari per favorire la confluenza dell’Ucraina nell’ambito del blocco atlantico. La strategia geopolitica seguita nel 2014 dai “falchi liberali” statunitensi, conclude Gabellini, si colloca perfettamente sulla linea di continuità con le perorazioni di Hillary Clinton tendenti, a ogni costo (anche spendendo 5 miliardi di dollari…) e con ogni mezzo (compreso l’innesco di una guerra per procura in Ucraina, esacerbando preventivamente ad hoc le linee di frattura etno-confessionali presenti nel Paese), a sabotare il progetto di Vladimir Putin teso a dar vita a una rinnovata Unione Eurasiatica (comprendente Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e, in teoria e in prospettiva, Ucraina) sulle spoglie della defunta Unione Sovietica. Scrive infatti il giovane redattore di Eurasia: «[…] quel “Fuck the European Union” simboleggia in maniera fedele ed efficace il disprezzo che gli Stati Uniti serbano nei confronti dell’Europa, e preannunciava allo stesso tempo una decisa mobilitazione di Washington che era comunque nell’aria fin dal dicembre 2012, quando l’allora segretario di Stato, Hillary Clinton, dichiarò pubblicamente che “si sta manifestando una tendenza a ri-sovietizzare la regione. Non verranno impiegati questi nominativi per designare questo processo, ma non sbagliatevi. Sappiamo quale è l’obiettivo e stiamo individuando le maniere adeguate per rallentarlo o impedirlo”». Hillary Clinton, come del resto molti fanatici liberaldemocratici, è infatti ossessionata dalla figura politica di Vladimir Putin, ferreo conservatore culturalmente poco sensibile alle sirene del liberalismo occidentale e uomo politico incline a restituire alla Federazione russa un ruolo di global player internazionale scevro da sudditanze ed eccessivi condizionamenti esterni. Le dichiarazioni russofobiche di Hillary Clinton, scrive la storica Diana Johnstone nel volume Hillary Clinton. Regina del Caos (Zambon, Frankfurt, 2016), non sono che «una miscela di proiezioni e congetture prive di fondamento». Nel libro, Diana Johnstone riporta alcune delle vibranti dichiarazioni anti-Putin di Hillary Clinton, tra cui la seguente, assai indicativa dell’atteggiamento che, durante una eventuale e malaugurata presidenza Clinton, gli Usa assumerebbero nei confronti della Russia: «Putin concepisce la geopolitica come un gioco a somma zero, in cui se qualcuno vince qualcun altro deve perdere. Si tratta di una concezione obsoleta ma ancora pericolosa, che impone agli Stati Uniti di mostrare a un tempo forza e pazienza», laddove la nozione di «forza» è dall’ex segretario di Stato da intendersi quale necessità del ricorso al soft power (“rivoluzioni colorate” e politica economica sanzionatoria dell’embargo “terapeutico”, ossia volto a suscitare la sollevazione “democratica” delle classi medie urbane pauperizzate dagli effetti della menzionata politica di sanzioni economiche) e quella di «pazienza» sta a significare che gli Usa potrebbero anche aspettare, sotto la Clinton, di vedere la spinta propulsiva del “putinismo” esaurirsi sotto i colpi di una controrivoluzione interna guidata da oligarchi filoccidentali o da Quinte Colonne neoliberali inserite in determinati posti-chiave degli apparati di Stato e di governo (una controrivoluzione mirante a fare, sostanzialmente, della Russia una ripetizione, su vasta e potenzialmente incontrollabile scala, dello scenario ucraino odierno). Per Hillary Clinton, stratega della flessibilizzazione liberale delle masse e della destabilizzazione dei legami statuali tradizionali (politica del caos costruttivo o dell’anarchia controllata), in una parola, alfiere della rimozione del katechon, Vladimir Putin non può che rappresentare il “nemico principale”, il katechon appunto, da abbattere e da rimuovere sulla via dell’espansione, a livello globale, dellaopen society postmoderna. Scrive infatti, a commento delle idiosincrasie ideologiche di Hillary Clinton, Diana Johnstone: «Se anche i consulenti russi dovessero darsi alla psicoanalisi, potrebbero informare Putin che Carl Bernstein, il biografo di Hillary, ha messo in evidenza la sua tendenza a focalizzarsi su un “nemico” da demonizzare. Sulla scena internazionale Hillary sembra aver scelto Putin per interpretare questa parte». Al netto di queste considerazioni, è comprensibile il perché del sostanzialeendorsement di Vladimir Putin a favore del piazzista, praticone megalomane e filosionista Donald Trump, un populista che se lasciato, per un attimo, dalle lobby che determinano la politica statunitense, a guinzaglio lungo, potrebbe anche, forse, carezzare la tentazione di un accordo di facciata in Medioriente con Putin in funzione anti-jihadista. Con Hillary Clinton invece, “regina del Caos costruttivo”, il compromesso sarebbe impossibile perché coloro i quali, come l’ex segretario di Stato, si connotano per essere liberal abbacinati dalla fideistica ideologia dell’esportazione della democrazia americana all’estero, non possono accettare di scendere a trattative con il Katechon, di cui pretendono irrimediabilmente la rimozione. A Hillary Clinton e ai suoi “falchi liberali”, al fine di ricondurli, se mai fosse possibile, alla ragione, sarebbe utile e opportuno ricordare queste parole, pronunciate da Diana Johnstone nel suo libro: «Storicamente i russi, un popolo fondamentalmente prudente e dall’atteggiamento difensivo, sono riluttanti a dare inizio alle guerre, anche se tendono a essere molto bravi a vincerle». Come si suol dire, a buon intenditor, poche parole.-------------
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