Oggi la minoranza si mette sulla riva del fiume e aspetta che il segretario anneghi prima di averla del tutto «asfaltata». Solo lo sfascio a destra salva dall’autodistruzione
Nel Partito democratico sembra svanito ogni residuo di sentire comune. Si detestano, si vogliono male, non credono più in un destino condiviso. Matteo Renzi, nel commentare l’intervista di Massimo D’Alema a Aldo Cazzullo per il Corriere in cui si profilava l’ombra di una scissione, riesuma la categoria dell’«odio» politico come chiave per decifrare l’aggressività dalemiana. Il conflitto tra linee politiche, che pure dovrebbe modellare i rapporti anche tempestosi tra componenti dello stesso partito, diventa inconciliabilità comportamentale, addirittura incompatibilità psicologica: «gufi» contro «arroganti».
Una scissione emotiva silenziosa
Persino
nei partiti italiani più devastati dal morbo correntizio non si era mai
sperimentato, come affiora in ogni dichiarazione degli esponenti della
minoranza Pd, il desiderio potentissimo di una sonora sconfitta
elettorale del proprio simbolo. Una scissione emotiva silenziosa, che
prelude alla speranza di una botta nelle urne come antefatto per la
cacciata del segretario vissuto come un «usurpatore». E del resto, non
si ricorda un segretario di un partito che prevede una democrazia
interna di anime diverse, dunque non monolitico e autoritario come fu
per esempio il Pci, rivendicare ripetutamente di aver «asfaltato» la
minoranza interna.......
Il centrodestra è in una condizione di agonia
Se
per il Pd le conseguenze di questo auto-cannibalismo non saranno
catastrofiche è solo perché l’antagonista di sempre, il centrodestra, è
in una condizione di agonia, comunque di dissoluzione. Ma come avviene
nei matrimoni che si sfasciano, le colpe di un tale avvitamento
nell’odio reciproco sono ben distribuite nella coppia. Renzi e il suo
cerchio magico non mancano occasione per umiliare gli oppositori
interni, bollati come una banda di stagionati conservatori immersi nel
vecchiume di una sinistra condannata perennemente alla sconfitta,
chiamati a chinare il capo e a non ostacolare l’azione del capo
decisionista.
Errori marchiani, come a Napoli con il rifiuto del ricorso di Bassolino
In
questo clima di continua battaglia per «asfaltare» la minoranza, a
volte commettono errori marchiani, come è avvenuto a Napoli quando hanno
deciso di non accogliere con futili pretesti formali il ricorso di
Bassolino sulla regolarità di primarie macchiate dalle scene che si sono
viste nei filmati. A volte peccano di presunzione, come è accaduto in
Liguria con la scelta di un candidato, pur legittimato da primarie
peraltro altrettanto contestate, che ha fatto infuriare la sinistra
interna fino alla vittoria dell’avversario di centrodestra. Ma sempre
con l’intenzione, visibile ad occhio nudo, di liberarsi una volta per
tutte di questa molesta minoranza di dinosauri, anche con l’ausilio
parlamentare di truppe straniere come i «verdiniani».
La minoranza si mette sulla riva del fiume
I
dinosauri della minoranza, peraltro, conducono la loro battaglia
appellandosi di continuo al loro potere di veto e di interdizione, salvo
allinearsi con il segretario Renzi nei voti parlamentari decisivi: come
è accaduto al Senato, dove la riforma costituzionale è stata votata
dopo aver tuonato per mesi sulla sua inammissibile e pericolosa
connotazione autoritaria. Oggi la minoranza si mette sulla riva del
fiume e aspetta che il segretario anneghi prima di averla
definitivamente «asfaltata».
La difficoltà a costruire qualcosa a sinistra del Pd
Non
rompe, come pure si è azzardato a dire Massimo D’Alema, perché sa che
fuori del Pd non potrebbe raggiungere un consenso elettorale
significativo. Sa che fuori del perimetro piddino troverebbe rissosità,
confusione, personalismi, rendite di posizione, microapparati in perenne
guerra tra loro. Nessuno, oltre ai parenti più stretti e agli
osservatori più maniacalmente attaccati alle minuzie della vita
politica, potrebbe riuscire a capire perché i Fassina, i Civati, i
Cofferati, i D’Attorre, quelli che sono usciti dal Pd rifiutando di
restare aggrappati alla «ditta» come vuole Pier Luigi Bersani, non si
siano finora messi insieme per costruire qualcosa a sinistra del Pd che
sia minimamente credibile.
La paura delle deriva frena la minoranza dalla rottura
Ed
è per la paura di questa deriva che la minoranza che ancora ha deciso
di stare dentro e di non rompere secondo la linea dettata da D’Alema,
preferisce acquattarsi nella speranza di uno scivolone
dell’«usurpatore», a Roma e a Napoli in primis. Un partito che scommette
contro se stesso rischia molto. E anche un leader che deve vincere per
sconfiggere la minoranza interna rischia di correre una partita anomala.
I separati in casa rischiano di odiarsi troppo, con il pericolo di una
rovina che potrebbe seppellirli. Solo grazie alla debolezza
dell’avversario possono evitare derive catastrofiche. Ma per quanto?
Nessun commento:
Posta un commento