Un articolo del 1997 del Corriere su un libro che documentava le origini antidemocratiche della prassi UE che ha preso il sopravvento sulle sovranità dei popoli. Quando il Führer diceva: 'Siamo una famiglia di popoli'.
di Riccardo Chiaberge.
Corriere della Sera, 14 maggio 1997.
E se il sogno europeo strangolasse la democrazia? Se i tecnocrati di Bruxelles si preparassero a sospendere le libertà costituzionali, come hanno fatto a suo tempo i militari algerini?È il sospetto angoscioso che avanza Barbara Spinelli dalle colonne della Stampa. Un'ipotesi neanche tanto "fantapolitica", viste le difficoltà di far quadrare i parametri della Moneta Unica.
Del resto, questi rischi di involuzione illiberale sono stati più volte denunciati anche da un'autorità come Ralf Dahrendorf. Ma nessuno finora, neppure tra gli euroscettici più inveterati, si era mai azzardato a mettere in dubbio i sacri principi, l'ispirazione democratica del processo di integrazione.
A infrangere quest'ultimo tabù provvede ora lo storico John Laughland con un libro documentato e feroce appena uscito in Gran Bretagna, The Tainted Source (La sorgente infetta), editore Little, Brown and Company.
Sottotitolo: le origini antidemocratiche dell'idea europea.
Capovolgendo uno dei luoghi comuni più tenaci della vulgata federalista, Laughland cerca di dimostrare che il progetto di un'Europa unificata non è figlio del pensiero liberale, ma delle ideologie totalitarie, naziste e fasciste, nelle loro molteplici varianti. E che lungi dal rappresentare una conquista di libertà, il superamento della sovranità nazionale mina alla base lo Stato di diritto e le garanzie fondamentali del cittadino.....
Laughland, un intellettuale di idee thatcheriane che collabora al Wall Street Journal e al Sunday Telegraph, non è nuovo a simili provocazioni. Tre anni fa il suo pamphlet The Death of Politics (La morte della politica) aveva fatto infuriare gli europeisti bigotti.
Ma questa volta l'impatto potrebbe essere ancora più devastante. Proprio mentre Tony Blair riapre il dialogo con Bruxelles e rivendica per il suo paese un ruolo-guida nella UE al fianco di Francia e Germania, un suo concittadino getta una bomba ad altissimo potenziale contro il mausoleo dei padri fondatori.
Staccate dalla parete i ritratti di Adenauer, di Schuman o di Jean Monnet - ci dice Laughland - e sostituiteli con quelli di Hitler, diMussolini o di Pétain. Sono loro i veri apostoli dell'idea europea. È dai loro cromosomi che discendono, senza saperlo, i "ragionieri" di Maastricht, quelli che danno pagelle ai governi e decidono chi dev'essere promosso e chi bocciato.
Verrebbe spontaneo liquidare queste affermazioni come semplici boutade dettate da pregiudizi antitedeschi, un po' come quel filmaccio hollywoodiano nel quale i capi della Bundesbank portano la svastica al braccio: se non fosse che l'autore ha corredato il suo atto di accusa con un poderoso apparato di note.
E allora visitiamo insieme questa galleria degli antenati.
Cominciamo da Joseph Goebbels. Fu il ministro della Propaganda del Terzo Reich, un personaggio che viene di solito associato a iniziative poco simpatiche, come il rogo dei libri "proibiti" o la campagna contro gli ebrei.
Bene, se riascoltassimo oggi i discorsi di questo signore a proposito dell'Europa, potremmo scambiarlo per Helmut Kohl.
La tecnologia dei trasporti e delle telecomunicazioni sta accorciando le distanze tra i popoli - diceva Goebbels nel 1940 - e questo condurrà inevitabilmente all'integrazione europea.
"I popoli dell'Europa stanno rendendosi sempre più conto che molte delle controversie che ci dividono sono semplici baruffe famigliari in confronto alle grandi questioni che devono essere risolte tra i continenti".
Circa il modo di riportare la pace in famiglia, sappiamo bene che cosa il nostro avesse in mente. Ma con le buone o con le cattive, il risultato che si prefiggeva era l'abolizione delle frontiere tra gli Stati nazionali, che è per l'appunto l'obiettivo del trattato di Maastricht.
"Voi siete già membri di un grande Reich che si prepara a riorganizzare l'Europa, abbattendo le barriere che ancora dividono i popoli europei e rendendo più facile per loro lo stare assieme".
Goebbels non è propriamente un modello per i giovani d'oggi, ma bisogna riconoscere che aveva la vista lunga: "Tempo cinquant'anni - disse - e la gente non penserà più in termini di nazione".
Sortite propagandistiche, si dirà, la classica foglia di fico per nobilitare una politica di aggressione. Obiezione respinta. Laughland ci spiega che in realtà Hitler la pensava così ben prima di scatenare le suepanzerdivisionen. Parlando all'adunanza del partito nazista a Norimberga, nel 1937, il Führer disse testualmente:
"Noi siamo più interessati all'Europa di qualsiasi altro paese. La nostra nazione, la nostra cultura, la nostra economia, sono cresciute entro un più ampio contesto europeo. Pertanto dobbiamo essere i nemici di ogni tentativo di introdurre elementi di discordia e distruzione in questa famiglia di popoli".
Nell'agosto 1941, un comunicato congiunto italo-tedesco, controfirmato dall'alleato Mussolini, avrebbe ribadito in termini più bellicosi un concetto analogo:
"La distruzione del pericolo bolscevico e dello sfruttamento plutocratico renderà possibile una pacifica, armoniosa e proficua collaborazione tra tutti i popoli del continente europeo, nel campo politico come in quello economico e culturale".
Ma la più articolata riflessione nazista sull'argomento sarebbe venuta l'anno successivo, con la grande conferenza organizzata dagli imprenditori berlinesi sul tema Europäische Wirtschaftsgemeinschaft (letteralmente: Comunità economica europea), con la partecipazione di autorevoli esponenti del regime.
Il ministro dell'economia del Reich, Walter Funk, che era anche presidente della Banca centrale, sostenne in quell'occasione che la costruzione di aree economiche "segue una naturale legge di sviluppo", e ricordò che quando la Germania era frazionata in tanti staterelli ciascuno con la sua moneta, il Paese non era in grado di fare fronte alla concorrenza di Francia e Inghilterra.
Pur ammettendo che l'integrazione del continente sarebbe stata più difficile da realizzare della Zollverein, l'unione doganale tedesca, il ministro concludeva che si sarebbe dovuta comunque fare, "perché il suo momento è venuto".
Un mercato unico, con il Reichsmark come valuta di riferimento: questo il sogno degli economisti nazisti.
Non molto diverso, dopotutto, da quello degli gnomi della Bundesbank degli anni Novanta.
Ma il dibattito non si ferma a Berlino, coinvolge anche l'Italia fascista.Alberto de Stefani, che fu ministro delle Finanze di Mussolini dal '22 al '25, scrive nel 1941:
"Le nazionalità non costituiscono una solida base per il progettato nuovo ordine, a causa della loro molteplicità e della loro tradizionale intransigenza... Un'unione europea potrebbe non essere soggetta alle oscillazioni di politica interna che sono caratteristiche dei regimi liberali".
Gli fa eco il direttore di Civiltà Fascista, Camillo Pellizzi:
"Una nuova Europa: questo è il punto, e questa la missione che abbiamo di fronte a noi. Il che non significa che Italiani, Tedeschi e le altre nazioni della famiglia europea debbano... diventare irriconoscibili... Sarà una nuova Europa per la nuova ispirazione e il principio determinante che emergerà tra tutti questi popoli".
L'anello mancante, il trait-d'union tra fascismo e federalismo, secondo Laughland, è una corrente filosofica alla quale dice di ispirarsi uno dei più grandi eurocrati, Jacques Delors: il personalismo diEmmanuel Mounier. Una dottrina "nebulosa" nella quale tendenze ecumeniche e comunitarie si mescolano, soprattutto negli anni Trenta, a forti dosi di anticapitalismo e di antiparlamentarismo.
Intorno a Esprit e a Ordre Nouveau, le due riviste del gruppo, dirette rispettivamente da Mounier e da Denis de Rougemont, si aggregano diversi intellettuali che guardano almeno inizialmente con favore all'esperimento nazionalsocialista. E lo stesso Mounier partecipa nel 1935 a un convegno a Roma sullo Stato corporativo, al termine del quale loda lo "slancio costruttivo" degli studiosi in camicia nera.
C'è dunque una continuità tra l'europeismo totalitario degli anni Trenta e Quaranta e quello "democratico" del dopoguerra.
Entrambi hanno un avversario comune: lo Stato nazionale, in cui vedono una minaccia per la pace e un recinto troppo angusto per un'economia di dimensioni planetarie.
Per entrambi, "la molteplicità implica disordine e l'ordine richiede uniformità". Intorno a questi concetti, nell'Europa di oggi, si realizza una inedita convergenza tra liberali tecnocratici alla Leon Brittan e socialisti alla Delors.
"A differenza dei conservatori, i liberali tecnocratici pensano di poter avere la ciliegina dell'ordine liberale senza la torta della nazionalità, della legge e della politica che dovrebbero sottostare a esso".
Niente di più sbagliato, sostiene l'autore. Fin dall'antichità, la cittadinanza è strettamente legata all'esistenza di confini. Lo stesso termine greco polis, come il latino urbs, rimanda al concetto di cerchio, di mura perimetrali.
E il vocabolo inglese town (città) ha la stessa radice etimologica del tedesco zaun, che vuol dire appunto recinto.
"La chiarezza territoriale - dice Laughland - è un prerequisito essenziale per l'organizzazione non tribale" delle società umane.
"E' per questo che la storia dello Stato di diritto e quella dell'idea nazionale sono inseparabili... Lungi dall'essere una minaccia per l'ordine liberale, la nazione ne costituisce il fondamentale presupposto".
Ubbie di un thatcheriano nostalgico? Può darsi. Ma se qualcuno pensa di riesumare dopo due secoli la Serenissima Repubblica, forse un po' di colpa ce l'hanno anche i tiranni della Moneta Unica.
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