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giovedì 25 settembre 2014

Giorgio Napolitano teste al processo sulla trattativa Stato-mafia: la contaminazione di un'istituzione (e la legislatura?)



La cosa era nell’aria, ma arriva quando i nodi dello scontro tra i ‘nuovi’ politici e la magistratura sono al pettine. Giorgio Napolitano è chiamato dai giudici di Palermo a testimoniare nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Naturalmente, saranno i pm a venire a Roma per interrogarlo al Quirinale, come stabilisce l’articolo 205 del codice di procedura penale (“La testimonianza del Presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di Capo dello Stato”). La cosa si svolgerà al “più presto”, come fa sapere lo stesso Napolitano intenzionato a non trascinarla per le lunghe e a chiudere il prima possibile un affare che scotta. Perché, al di là dei torti e delle ragioni, dei giudizi e dei pregiudizi, delle opinioni e delle convinzioni, l’atto deciso oggi dalla Corte d’Assise di Palermo oggettivamente e inconfutabilmente ‘contamina’ l’istituzione della presidenza della Repubblica, in quanto Napolitano è il primo capo dello Stato in carica a dover comparire come teste in un processo (Scalfaro e Ciampi furono sentiti da ex presidenti nel 2010). Di più. La contaminazione apre degli interrogativi sul destino del governo Renzi, in quanto ‘figlio’ di quella istituzione, ultimo dei tre nati da Napolitano, dopo gli esecutivi di Mario Monti ed Enrico Letta. La scelta dei giudici di Palermo segna l’atto finora più importante della nuova guerra tra politica e magistratura. Chi vince la guerra, durerà. Per ora, nessuno degli avversari dà segno di voler mollare......

Il primo è Napolitano. Il quale pur essendo a ridosso della fine del suo secondo mandato (presumibilmente all’inizio dell’anno prossimo, stando a rumors che circolano) non ha intenzione di anticipare le sue dimissioni per via della convocazione da parte dei pm di Palermo. “Prendo atto dell'odierna ordinanza della Corte d'Assise di Palermo. Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza - secondo modalità da definire - sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso", fa sapere Napolitano in una nota. A ottobre, in una lettera alla Corte di Palermo, aveva spiegato di non aver nulla da riferire sui temi del processo, pur dicendosi disponibile a testimoniare. Ora la convocazione, con data da definire a stretto giro. Ma nel frattempo Napolitano non molla.
Non è lo Scalfaro che nel 1993 tenne un discorso in diretta tv, non programmato, per scandire “Io non ci sto a questo gioco al massacro”. Allora, si trattava dell’arresto di Riccardo Malpica, ex direttore dei servizi segreti del Sisde, che aveva accusato Scalfaro di aver preso soldi dal fondo riservato del servizio segreto civile quando era ministro dell’Interno (1983-‘87). Napolitano non usa toni roboanti. Ma siccome proprio oggi al Quirinale deve presiedere la cerimonia di commiato dei vecchi membri del Csm, il capo dello Stato scandisce due messaggi per la magistratura. Il primo: “La riforma della giustizia non è più rinviabile”, ne va della nostra “competitività”. Il secondo, particolarmente sensibile: le correnti (politiche) in magistratura sono dannose. “Il Csm, nella sua componente togata, non è un assemblaggio di correnti – sono le parole di Napolitano - ma un tutto unitario, nel rispetto delle libere e responsabili valutazioni di ogni suo membro”. Per cui “non è ammissibile” che nel Csm ci siano "estenuanti, impropri negoziati nella ricerca di compromessi e malsani bilanciamenti tra correnti".
Se non è un guanto di sfida, ci manca poco. E se il ‘padre’ resiste, figurarsi il ‘figlio’. Matteo Renzi è ancora negli Usa, oggi impegnato all’assemblea dell’Onu sulle crisi in Medio Oriente. A Roma i suoi sono convinti che Napolitano uscirà rafforzato da questo ennesimo attacco della magistratura. E anche Renzi, nella sua linea garantista tesa a ristabilire il “primato della politica” anche sulla magistratura. Naturalmente, l’iniziativa dei giudici di Palermo conferma le perplessità del Pd renziano sul modo di operare di alcuni magistrati. Ufficialmente, i Dem restano più o meno muti di fronte a questo nuovo colpo di scena. A parte il renziano Ermete Realacci, il primo a commentare: “Era nei poteri della magistratura fare questo atto se è stato fatto. È un'iniziativa che non mi convince, non credo che Napolitano abbia elementi ulteriori da fornire, odora un po’ di propaganda”. Da parte della minoranza Pd invece, quella impegnata nella battaglia sul Jobs Act (che sembrerebbe virare verso un’amara intesa col premier), c’è imbarazzo: stavolta mancano le note di solidarietà a Napolitano, che pure non sono mancate in altri aspri passaggi della tenzone tra tribunale di Palermo e Quirinale. Un vuoto di comunicati che colpisce, a maggior ragione perché cade a distanza di tre giorni dall’invito del capo dello Stato a mettere da parte “conservatorismi e corporativismi” sulla riforma del mercato del lavoro. Di fatto, una sferzata senza pari alla minoranza Dem.
Anche i giudici naturalmente non mollano. Sul tappeto, per tutti i contendenti, si rovescia ciò che finora non si era mai rovesciato: la macchia della contaminazione della presidenza della Repubblica per mano dei giudici (lo scandalo Lockheed che portò alle dimissioni di Giovanni Leone fu una campagna di stampa). Adesso la partita, da parte di Palazzo Chigi e Quirinale, è tesa a scansare la contaminazione, ridurla a frutto avvelenato di una lotta tra poteri. Un frutto da sputare per esistere ed evitare che dal Colle rovini sulla legislatura.

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