umberto marabese
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Non è per volerlo chiamare Barack Obush, ma l'inquilino della Casa Bianca, anche ora, continua gli stessi lavoretti del predecessore.
di Pino Cabras.
Non è per voler insistere a chiamarlo
Barack Obush, ma l'attuale inquilino della Casa Bianca, anche in
questi giorni, continua a fare gli stessi lavoretti del suo
predecessore: all'estero un clamoroso arresto extralegale in Libia, nonché
un nuovo attacco
militare in Somalia; mentre sul suolo americano si barcamena
restando prigioniero sia di un sistema finanziario che non vuole
cambiare (nemmeno quando si fermano
molti ingranaggi della spesa pubblica), sia di un sistema di
spionaggio elettronico che non smantellerà mai.
I media hanno dato poco risalto, in
questi giorni, alla "rendition" che si è consumata a Tripoli,
quando una squadra speciale delle forze armate USA ha catturato
Abu Anas al-Libi. Si tratta di un vecchio arnese
jihadista, una carriera passata a entrare e uscire dalle porte
girevoli di al-Qa'ida, a volte come alleato, a volte come apparente
nemico dell'Occidente, così come tutti gli ambigui ufficiali della
galassia terrorista.....
La storia di questo arresto extralegale ha una coda. Pare che ben duecento marines siano stati spostati dalla Spagna a Sigonella, in Sicilia, a un tiro di drone dalla Libia, pronti a intervenire contro brutte sorprese. I libici non l'hanno infatti presa bene: persino in uno Stato fallito come la Libia del dopo-Gheddafi pensano che non sia dignitoso dire sempre di sì a una potenza straniera che cattura i propri cittadini calpestando norme sovrane. In più, nel micidiale miscuglio di poteri armati che si impasta dentro la polveriera libica, la componente dei tagliagole qa'idisti è ben presente, instabile e difficilissima da maneggiare: ha mangiato e mangia tuttora allo stesso tavolo degli altri poteri, non si fa certo dare lo sfratto.
La storia di questo arresto extralegale ha una coda. Pare che ben duecento marines siano stati spostati dalla Spagna a Sigonella, in Sicilia, a un tiro di drone dalla Libia, pronti a intervenire contro brutte sorprese. I libici non l'hanno infatti presa bene: persino in uno Stato fallito come la Libia del dopo-Gheddafi pensano che non sia dignitoso dire sempre di sì a una potenza straniera che cattura i propri cittadini calpestando norme sovrane. In più, nel micidiale miscuglio di poteri armati che si impasta dentro la polveriera libica, la componente dei tagliagole qa'idisti è ben presente, instabile e difficilissima da maneggiare: ha mangiato e mangia tuttora allo stesso tavolo degli altri poteri, non si fa certo dare lo sfratto.
La presidenza USA si spinge entro un
percorso obbligato, Obama o non Obama. Non c'è spazio per
interpretazioni improvvisate del ruolo. E ad essere fino in fondo
onesti, la continuità di Obama non è solo con Bush, bensì con i
comportamenti medi di tanti suoi predecessori.
La differenza che si coglie oggi
rispetto al passato è che i vincoli sono molti più di prima, e non
tutti vengono dalla funzione del presidente in sé. Washington spia
tutti e spende in armi più degli altri messi insieme, ma è la
capitale di un impero acciaccato. Il dollaro non è più
quello di una volta, il mondo non ha un solo polo.
L'America di Obama si tiene stretta la
divisa del gendarme planetario, che indossa ormai perfino come
pigiama: e perciò ogni giorno lancia un drone in Pakistan, un missile in
Somalia, un altro drone in Yemen, così come manda agenti pagatori,
provocatori e addestratori sul campo in tanti altri scenari, Siria
inclusa. Ma qualcosa non gira. Obama era a un passo dall'attaccare
Damasco, ma ha dovuto retrocedere. E ora non ha molti bad boys
da esibire. Il jolly Bin Laden se l'è già sputtanato, rimaneva
qualche mezza calzetta come Al-Libi (che addirittura stava cercando
qualche impiego parastatale, altro che Califatto mondiale). Perfino
in Somalia il gendarme non si avventura nei brutti quartieri degli
al-Shabaab.
Le azioni imperiali di questi giorni
sembrano limitate manutenzioni. Sono piccoli blitz fatti per far
ricordare che la superpotenza c'è ancora. Il democrat Obama non ha
mai messo in discussione l'ideologia neocon del "manifest
destiny" dell'America. Il potere USA fa il suo mestiere perché
quello sa fare, ma sa che sta consumando in un vortice sempre più
drammatico le risorse future, sia nella finanza che nell'ambiente.
Wall Street è ancora il palo della
cuccagna finanziaria del pianeta, ma il prezzo per Washington è la
paralisi a un passo dal default.
L'industria energetica americana,
grazie a nuove tecnologie, ha di nuovo posto gli Stati Uniti in testa
alla produzione mondiale di gas e petrolio, con cui vuole assestare
alcuni colpi da KO agli altri grandi produttori di idrocarburi, ma il
prezzo - in questo caso - è una devastazione ambientale che avrà
effetto entro pochi anni. I pozzi di shale gas infatti durano poco,
Hanno la stessa logica irresponsabile dei derivati finanziari:
ottenere apparenti sicurezze subito, per rinviare al futuro gli
immancabili ed enormi problemi sottostanti.
Obama non solleva lo sguardo, intanto che ci
impone un presente dalla marcata impronta conservatrice.
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