di Angelo Panebianco.
http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_13/un-partito-senza-leader-angelo-panebianco_9ddde79c-03d1-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml
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È paradossale che la decapitazione giudiziaria del suo storico
avversario non stia al momento portando frutti al Partito democratico.
Berlusconi continua ad essere il protagonista principale di questa
stagione. La vicenda Imu è esemplare. Quando il premier Letta dice che
solo se il suo governo durerà si eviterà il pagamento delle prossime
rate dell'Imu sulla prima casa, sta ricordando al Pdl che non gli
conviene tirare la corda, ma sta anche implicitamente riconoscendo che
l'agenda politica del governo è dettata, in larghissima misura, da
Berlusconi.
La capacità di individuare di volta in volta la
battaglia politica dirimente, quella che sposta i consensi, è come il
coraggio di Don Abbondio: uno non se la può dare. O la si possiede già
oppure niente. Mentre Berlusconi, in un Paese di proprietari di case,
agita la questione dell'Imu sia per le sue immediate conseguenze
pratiche (per le tasche degli italiani) che per i suoi significati
simbolici (la riduzione delle tasse come leva per il rilancio della
economia), il Partito democratico si limita a balbettii sul problema del
«lavoro», apparendo così una sbiadita fotocopia della Cgil. Poiché i
posti di lavoro non li può creare lo Stato, parlare di lavoro significa
parlare di crescita. Ma il Pd non riesce ad avere idee-forza sulla
crescita da comunicare con efficacia al Paese.....
Naturalmente, ciò è in larga misura conseguenza delle sue
divisioni interne, del fatto che, a tanti mesi di distanza dalla
sconfitta di Bersani, non è ancora riuscito a trovare un nuovo
baricentro politico. È dunque alla sfida per la leadership nel Pd che
bisogna guardare per capire come evolveranno le sue scelte
programmatiche e i suoi rapporti col governo. È ormai chiaro che Matteo
Renzi e Enrico Letta (quale che sarà la formula della partecipazione di
quest'ultimo) ne saranno i protagonisti principali. È, per certi
aspetti, una buona notizia. Non vengono dall'esperienza comunista (anche
se non potranno mai ignorare il ruolo di coloro che da lì provengono),
non sono appesantiti da quel fardello. Anche se difficile in pratica, i
due potrebbero essere tentati di cercare un accordo. Sarebbe una buona
cosa per certi versi e cattiva per altri. Sarebbe una buona cosa per il
fatto che essi sembrano avere virtù e difetti opposti e potrebbero
compensarsi. Letta appare, fra i due, il più solido, il più attrezzato
culturalmente e politicamente, ma è anche frenato da un eccesso di
prudenza (in tempi in cui servirebbero audacia e inventiva). Renzi
appare meno solido ma è un comunicatore nato, ha coraggio da vendere, e
dispone di quella spregiudicatezza che è necessaria alla leadership.
Un accordo fra i due sarebbe però anche, da un altro punto di
vista, una cattiva cosa. Metterebbe capo a una diarchia, per sua natura
instabile, in un'epoca in cui i partiti hanno bisogno di un (solo)
leader su cui investire: uno che ci metta la faccia da solo. In ogni
caso, soltanto quando le lotte interne al Pd cesseranno, quando ci sarà
un vincitore, quel partito potrà darsi un profilo politico e una
piattaforma che lo rendano di nuovo elettoralmente appetibile.
Chi si interroga sul futuro del Pd dovrebbe anche tenere d'occhio
le partite su legge elettorale e riforme istituzionali. Poiché la
politica non può essere divisa in compartimenti stagni, quelle partite
(ad esempio, una nuova legge elettorale, incidendo sulle potenziali
alleanze, potrebbe favorire l'uno o l'altro candidato) influenzeranno la
competizione per la leadership dentro il Partito democratico.
13 agosto 2013
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