Ricevo, copio/incollo.
umberto marabese
-------------------
Non c'è nulla di più triste di
un vecchio tormentato dalla coazione a ripetere. Chi in questi giorni
frequenta una spiaggia può rendersene conto con facilità. A ogni angolo
anziani “conquistadores” in posa, con gli occhiali scuri, lo sguardo
malandrino o finto disinteressato, in attesa di una donna – di qualsiasi
età, il casanova anziano sa di doversi accontentare. In riva al mare,
con la pelle un po' flaccida sotto quelli che una volta erano i
pettorali da richiamo e le cosce svuotate dei quadricipiti, esibiscono
un rituale consaputo per cui non hanno più il fisico. La concorrenza più
giovane li guarda, li salta, inventa altri rituali per l'identica
religione. Un filo d'odio scorre dall'angolo dell'occhio dell'anziano
assiso, invano proteso a cavar fuori dalla cascata di rughe la postura
del “ghepardo di una volta”..........
Accade anche in magistratura. Accade a
Torino, dove una Procura d'altri tempi persegue reati immaginari dando
loro i nomi di altri tempi, travisando il presente secondo “fattispecie”
oggi irrintracciabili.
Prendiamo per un atimo sul serio
l'accusa di “attentato per finalità terroristiche o di eversione
dell’ordine democratico”, ai sensi dell’art. 280 codice penale, elevata
contro alcuni attivisti No Tav. Si tratta di un'aggravante specifica che
punisce con pene fino a venti anni di carcere chi “attenta alla vita od
alla incolumità di una persona”.
Va da sé che per “attentare alla vita”
bisogna disporre di mezzi d'offesa adeguati e organizzazione che preveda
esplicitamente tra i propri obiettivi l'uccisione dei nemici; ovvero
armi e organizzazione clandestina. Due caratteristiche completamente
assenti nel movimento No Tav, i cui esponenti sono usi a intervenire
pubblicamente e le cui “dotazioni militari” non vanno oltre – in singoli
casi – i sassi e le maschere antigas (notoriamente strumento di difesa contro eserciti criminali che fanno uso di armi chimiche che la Convenzione di Ginevra condannerebbe anche in zona di guerra).
Resta quindi la domanda: perché la
Procura di Torino ha preso questa strada così assurda da un punto di
vista giuridico e reazionaria su quello politico?
Per provare a rispondere bisogna prima
ricordare qual'è la “cultura giuridica” del Procuratore capo del
capoluogo piemotese e subito dopo mettere in evidenza le conseguenze
politiche di questa azione abnorme, nella prospettiva di un autunno che
s'anuncia pieno di conflitto.
Come hanno notato osservatori insospettabili – persino i
Non c'è nulla di più triste di
un vecchio tormentato dalla coazione a ripetere. Chi in questi giorni
frequenta una spiaggia può rendersene conto con facilità. A ogni angolo
anziani “conquistadores” in posa, con gli occhiali scuri, lo sguardo
malandrino o finto disinteressato, in attesa di una donna – di qualsiasi
età, il casanova anziano sa di doversi accontentare. In riva al mare,
con la pelle un po' flaccida sotto quelli che una volta erano i
pettorali da richiamo e le cosce svuotate dei quadricipiti, esibiscono
un rituale consaputo per cui non hanno più il fisico. La concorrenza più
giovane li guarda, li salta, inventa altri rituali per l'identica
religione. Un filo d'odio scorre dall'angolo dell'occhio dell'anziano
assiso, invano proteso a cavar fuori dalla cascata di rughe la postura
del “ghepardo di una volta”.
Accade anche in magistratura. Accade a
Torino, dove una Procura d'altri tempi persegue reati immaginari dando
loro i nomi di altri tempi, travisando il presente secondo “fattispecie”
oggi irrintracciabili.
Prendiamo per un atimo sul serio
l'accusa di “attentato per finalità terroristiche o di eversione
dell’ordine democratico”, ai sensi dell’art. 280 codice penale, elevata
contro alcuni attivisti No Tav. Si tratta di un'aggravante specifica che
punisce con pene fino a venti anni di carcere chi “attenta alla vita od
alla incolumità di una persona”.
Va da sé che per “attentare alla vita”
bisogna disporre di mezzi d'offesa adeguati e organizzazione che preveda
esplicitamente tra i propri obiettivi l'uccisione dei nemici; ovvero
armi e organizzazione clandestina. Due caratteristiche completamente
assenti nel movimento No Tav, i cui esponenti sono usi a intervenire
pubblicamente e le cui “dotazioni militari” non vanno oltre – in singoli
casi – i sassi e le maschere antigas (notoriamente strumento di difesa contro eserciti criminali che fanno uso di armi chimiche che la Convenzione di Ginevra condannerebbe anche in zona di guerra).
Resta quindi la domanda: perché la
Procura di Torino ha preso questa strada così assurda da un punto di
vista giuridico e reazionaria su quello politico?
Per provare a rispondere bisogna prima
ricordare qual'è la “cultura giuridica” del Procuratore capo del
capoluogo piemotese e subito dopo mettere in evidenza le conseguenze
politiche di questa azione abnorme, nella prospettiva di un autunno che
s'anuncia pieno di conflitto.
Come hanno notato osservatori insospettabili – persino il Corriere della sera!
- l'accusa “terroristica” è un “salto di qualità” nella strategia
giudiziaria del pool guidato da Giancarlo Caselli, una “prima volta” nel
lungo confronto tra movimenti di protesta sociali e potere repressivo
dello Stato. Una “prima volta”, evidentemente, che riguarda le pratiche messe in atto.
In tutto e per tutto, le azioni del
movimento No Tav fanno parte della normale strumentazione della protesta
di piazza, per quanto sui terreni impervi tipici di una valle alpina. E
mai era accaduto che simili pratiche venissero indicate come
“terroristiche”. Per il buon motivo – anche giuridico – che mancava
l'uso di “armi” (se non quelle messe in mostra con dubbia generosità
dalle cosiddette “forze dell'ordine”) e quindi qualsiasi possibile
intenzione di “attentare alla vita od alla incolumità di una persona”.
E questo senza nemmeno scomodare un'altra
e più giustificata visione storica dei conflitti che non classifica
come “terrorismo” neanche le guerriglie, ma soltanto l'uso di mezzi di
distruzione di massa contro popolazioni civili. Ovvero quello che, tra
gli altri, ha messo in atto lo Stato italiano nei confronti del proprio
popolo dagli anni '60 in poi (la stranota “strategia della tensione”).
In questa decisione della Procura
torinese pesa una visione dello strumento giudiziario come “arma di
guerra”, senza nessun rapporto con la “legalità” e tanto meno con la
“giustizia”. L'estensione dell'accusa di “terrorismo” alla normale
protesta di massa, anche “robusta”, implica che nella testa di quei
magistrati l'azione penale sia uno strumento “flessibile” da usare
secondo una logica di guerra. Il magistrato inquirente cessa di
perseguire un insieme codificato di “fattispecie” per adottare invece
quelle accuse che meglio rispondono alla “necessità” di perseguire
alcuni oppositori politici.
È come se per impedire che un semplice
ladro di merendine possa “tornare a delinquere” in seguito alla
scarcerazione – perché la “pena” è necessariamente breve – lo si
accusasse di “rapina all'interno di un disegno criminoso” di più largo
respiro. È come se una singola protesta contro un singolo progetto
considerato letale per un territorio specifico venisse inquadrata
giuridicamente come un “attentato ai poteri dello Stato”. Ai poteri, non alla sovranità, che ormai non esiste più nei fatti.
Per la Procura di Torino, insomma, va
elevata l'accusa che fa più male agli accusati, non quella che il codice
penale in certi casi prescriverebbe. In questo modo si torce il diritto
in rovescio giuridico, si trasforma il contenzioso processuale in
guerra. Contro una popolazione civile e la sua parte necessariamente più
attiva: i giovani e chi ha più “visione” della protesta in atto. Non
magistrati dunque, ma fabbri ferrai della repressione, “immaginifici”
dell'accusa, “combattenti” di un potere insofferente di ogni
manifestazione d'opposizione.
Sarebbe facile a questo punto definire
“fascista” questa cultura. Ma sarebbe sbagliato. Qui non c'è alcun
preteso “ordine valoriale superiore” da imporre con la forza. Non c'è
alcuna “modernizzazione reazionaria” ostacolata strada facendo da
interessi definiti sbrigativamente “arretrati”. La Tav Torino-Lione è
un'opera inutile, che al momento non ha neppure la certezza di poter
esser completata (la Francia ha rinviato la decisione sulla parte di
lavori di sua competenza), portata avanti – tra le altre – anche da
alcune imprese in odor di malavita. Non è insomma in gioco nulla di più
che una marea di appalti finanziati con denaro pubblico per arricchire,
mal che vada, un nucleo ristretto di sventratori di territorio.
Sul piano politico, la Procura caselliana
indica la strumentazione adottabile nel conflitto sociale a venire,
magari già in questo autunno. Dalla finanza al diritto “creativo” il
passo è breve, ma verso gli inferi.
La provocazione ha una sua pericolosità. Punta infatti apertamente a
“sollecitare” un analogo e suicida “salto di qualità” in alcune frange
di movimento. Magari attivando alla bisogna quel manipolo di infiltrati
che da molti anni lavora per portare attivisti e compagni inesperti tra
le braccia poco amorevoli di questure e procure; e in qualche caso con
“successo”. Per ora sono partite solo alcune lettere sconclusionate, ma la agghiacciante subalternità dei media mainstream le ha traformate in “segnali politici”. Naturalmente a doppio senso.
Come a Gezi Park o in cento altri luoghi
del presente capitalistico, un modo di produzione e riproduzione della
vita, stretto nella morsa di una crisi da cui non sa più come uscire,
reagisce nello stesso identico modo: dichiara “terrorista” la parte più
intelligente, attiva, partecipe, lungimirante, della popolazione che
dovrebbe in teoria rappresentare. Che a questa torsione reazionaria del
capitalismo in crisi partecipi in prima fila l'ex gotha dell'ex Pci – al
Quirinale come a Torino - non ci sorprende più di tanto. Ma in questa
infima e stanca replica dello sciagurato “compromesso storico” non è più
rintracciabile alcuna grandezza, per quanto fosca e gravida di lutti.
Solo una triste coazione a ripetere,
tragicamente simile a quella dei vecchi “cucadores” con la testa
imbiancata, affollata di ricordi di “grandi imprese” ormai impossibli.
In tutto e per tutto, le azioni del
movimento No Tav fanno parte della normale strumentazione della protesta
di piazza, per quanto sui terreni impervi tipici di una valle alpina. E
mai era accaduto che simili pratiche venissero indicate come
“terroristiche”. Per il buon motivo – anche giuridico – che mancava
l'uso di “armi” (se non quelle messe in mostra con dubbia generosità
dalle cosiddette “forze dell'ordine”) e quindi qualsiasi possibile
intenzione di “attentare alla vita od alla incolumità di una persona”.
E questo senza nemmeno scomodare un'altra
e più giustificata visione storica dei conflitti che non classifica
come “terrorismo” neanche le guerriglie, ma soltanto l'uso di mezzi di
distruzione di massa contro popolazioni civili. Ovvero quello che, tra
gli altri, ha messo in atto lo Stato italiano nei confronti del proprio
popolo dagli anni '60 in poi (la stranota “strategia della tensione”).
In questa decisione della Procura
torinese pesa una visione dello strumento giudiziario come “arma di
guerra”, senza nessun rapporto con la “legalità” e tanto meno con la
“giustizia”. L'estensione dell'accusa di “terrorismo” alla normale
protesta di massa, anche “robusta”, implica che nella testa di quei
magistrati l'azione penale sia uno strumento “flessibile” da usare
secondo una logica di guerra. Il magistrato inquirente cessa di
perseguire un insieme codificato di “fattispecie” per adottare invece
quelle accuse che meglio rispondono alla “necessità” di perseguire
alcuni oppositori politici.
È come se per impedire che un semplice
ladro di merendine possa “tornare a delinquere” in seguito alla
scarcerazione – perché la “pena” è necessariamente breve – lo si
accusasse di “rapina all'interno di un disegno criminoso” di più largo
respiro. È come se una singola protesta contro un singolo progetto
considerato letale per un territorio specifico venisse inquadrata
giuridicamente come un “attentato ai poteri dello Stato”. Ai poteri, non alla sovranità, che ormai non esiste più nei fatti.
Per la Procura di Torino, insomma, va
elevata l'accusa che fa più male agli accusati, non quella che il codice
penale in certi casi prescriverebbe. In questo modo si torce il diritto
in rovescio giuridico, si trasforma il contenzioso processuale in
guerra. Contro una popolazione civile e la sua parte necessariamente più
attiva: i giovani e chi ha più “visione” della protesta in atto. Non
magistrati dunque, ma fabbri ferrai della repressione, “immaginifici”
dell'accusa, “combattenti” di un potere insofferente di ogni
manifestazione d'opposizione.
Sarebbe facile a questo punto definire
“fascista” questa cultura. Ma sarebbe sbagliato. Qui non c'è alcun
preteso “ordine valoriale superiore” da imporre con la forza. Non c'è
alcuna “modernizzazione reazionaria” ostacolata strada facendo da
interessi definiti sbrigativamente “arretrati”. La Tav Torino-Lione è
un'opera inutile, che al momento non ha neppure la certezza di poter
esser completata (la Francia ha rinviato la decisione sulla parte di
lavori di sua competenza), portata avanti – tra le altre – anche da
alcune imprese in odor di malavita. Non è insomma in gioco nulla di più
che una marea di appalti finanziati con denaro pubblico per arricchire,
mal che vada, un nucleo ristretto di sventratori di territorio.
Sul piano politico, la Procura caselliana
indica la strumentazione adottabile nel conflitto sociale a venire,
magari già in questo autunno. Dalla finanza al diritto “creativo” il
passo è breve, ma verso gli inferi.
La provocazione ha una sua pericolosità. Punta infatti apertamente a
“sollecitare” un analogo e suicida “salto di qualità” in alcune frange
di movimento. Magari attivando alla bisogna quel manipolo di infiltrati
che da molti anni lavora per portare attivisti e compagni inesperti tra
le braccia poco amorevoli di questure e procure; e in qualche caso con
“successo”. Per ora sono partite solo alcune lettere sconclusionate, ma la agghiacciante subalternità dei media mainstream le ha traformate in “segnali politici”. Naturalmente a doppio senso.
Come a Gezi Park o in cento altri luoghi
del presente capitalistico, un modo di produzione e riproduzione della
vita, stretto nella morsa di una crisi da cui non sa più come uscire,
reagisce nello stesso identico modo: dichiara “terrorista” la parte più
intelligente, attiva, partecipe, lungimirante, della popolazione che
dovrebbe in teoria rappresentare. Che a questa torsione reazionaria del
capitalismo in crisi partecipi in prima fila l'ex gotha dell'ex Pci – al
Quirinale come a Torino - non ci sorprende più di tanto. Ma in questa
infima e stanca replica dello sciagurato “compromesso storico” non è più
rintracciabile alcuna grandezza, per quanto fosca e gravida di lutti.
Solo una triste coazione a ripetere,
tragicamente simile a quella dei vecchi “cucadores” con la testa
imbiancata, affollata di ricordi di “grandi imprese” ormai impossibli.
Nessun commento:
Posta un commento