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mercoledì 1 maggio 2013

A te, lavoratore del 2013. Quello che oggi nessuno festeggia....!

In piazza ci sono tutti, arroccati in anacronismi sindacali imbevuti d'articolo 18. Manchi solo tu, volto del mercato reale, tra stage e contratti a scadenza: fatti celebrare!
umberto marabese
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Oggi è anche il mio giorno. Pure il tuo, di giorno. Parlo con te, ragazzotto a ottocento euro al mese abituato a datarti come lo yogurt. Sissignore, siamo lavoratori, noi. E io sono quella che odi, tu, ragazzotto. Perché uno straccio di contratto lo stringo tra le dita, roba figlia dell’intraprendenza di qualche Intraprendente. Ma tu sei ancora nella giungla, non molto più di me, ma la differenza la colgo. Insultami ragazzo, che ci sto. D’altro conto io e te siamo i lavoratori moderni, attuali, quelli della flessibilità in un universo rigido peggio del marmo. Siamo della stessa pasta e tu, in fondo, lo sai. Perché quella marea di palta la conosco io pure e c’ho riso negli anni, mentre per cena ingerivo pezzi del mio fegato. Come fai tu. Ma ragazzo oggi è la tua festa, quella tua e mia, anche se in piazza ci sono tutti tranne noi. Ci sono i catafalchi a raccontare dell’operaio sessantottino che neppure sa che lottava per diritti che a noi ha divorato lui per primo, che non ha accettato il mutare del sistema assistenzialista in meritocratico, liberale. E allora fattela una birra, io me la bevo alla tua. Tutta d’un fiato, ripercorrendo mesi di mestiere col ghigno agrodolce di chi cinicamente ha scelto di prenderla così. Brindo alla festa dei lavoratori.
Me lo ricordo il giorno in cui, in preda a un attacco d’isteria, consuetudine per il lavoratore moderno, ho urlato a mia madre che no, non sarei stata a preoccuparmi dei contributi Inps perché io la pensione non l’avrei mai avuta. Incancellabile, la sua faccia. Ghiacciata, ché il mio estratto conto d’allora (non che sia cambiato drasticamente) lo conosceva: euro tre dal 20 del mese in poi. E allora i conti non le tornavano. Credo abbia aperto un fondo a nome mio, quella sera.
Raccontiamocela io e te questa festa, sfogliando la carrellata di commedie umane e follie quotidiane, roba che ci puoi costruire sopra una decina di serie di un Fantozzi rivisitato. Scavalchiamo a piè pari la faccenda stage e il fatto che pure per ottenerne uno non retribuito (ce ne sono anche di altro tipo, dicono le leggende) si è disposti a vendere i reni. Tutti e due. E non conta se hai anni di esperienza, se sei un asso nel settore, lo stage è l’unica via per lavorare e allora la battaglia è durissima. Ai colloqui file di trentenni stremati eppure agguerriti, lì, per il tirocinio numero sei della loro carriera. E se resto una di quelle convinte che il periodo di apprendimento sia cosa giusta, per lavorare prima urge far scuola vera nel mondo del lavoro e chi pretende il contrario non è pronto, ho la strana sensazione che quando ti rinnovano per due anni non sei più esattamente uno stagista. Sei un impiegato non pagato. Fantastica condizione dell’essere comune a parecchi. Ma da qui se ne esce, dopo i primi cinque anni, circa. Tanto sei giovane e vivi con i tuoi, che pretendi? Metti le basi per il futuro. E non stare a pensare che tuo nonno alla tua età aveva sei figli, erano altri tempi.
Oggi è la tua festa, ragazzo, mia e tua. Sventolano bandiere di sindacati arroccati su un articolo 18 retaggio del mestierare defunto da mo’. Sventolano le bandiere di quelli che di te non possono occuparsi perché dovrebbero guardare in faccia il fatto che preservano retaggi anacronistici, che il mercato è mutato e loro sono fuori tempo massimo. Un cortocircuito che hai toccato con mano. Masticano slogan al sapor di fabbrica e le fabbriche si sono fatte altro. Muoiono grazie all’arcaico politico e al vigliacco che per una manciata di voti non riforma nulla. Oggi è la tua festa ragazzo, brinda alla faccia di chi sfila in onore di ciò che non c’è più. Tu sei il domani, ma l’Italia è costruita e arginata allo ieri. Tra i paradossi, sei costretto. È così che trascorre l’ennesima giornata in un ironico macello, in cui a macellano te. E non lo immaginano che non vuoi neppure il contratto (anche se chiunque lo abbia è un maledetto, lo so. La cattiveria che tutti abbiamo riversato anche sugli amici più cari è questione comune), che vorresti unicamente poterti permettere l’imbarazzante quantità di alcol che ingerisci ogni sera per guardare col sorriso il giorno che sta per nascere. Una certezza nell’incertezza però c’è: sei rodato e scafato per il futuro, lavoratore moderno. Lavorare durissimo non ti spaventerà. La speranza che tu sia pagato è poi un’altra cosa. Ma oggi festeggia, fattela una birra alla loro salute.

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