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venerdì 24 maggio 2013

A Giovanni Falcone: Aula Magna Palazzo di Giustizia di Palermo, (Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo)

  PS: <<....egli (G. Falcone) confidò alla moglie Agnese dicendole: "Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno".>>
 P. Borsellino: <<ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988>>.
 ...eppure ancora oggi c'è qualcuno che "chiede di non testimoniare  e glielo permettono" ...perchè?
umberto marabese
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Il doppio fronte che accerchiò Falcone. Strage di Capaci, 21 anni, il tempo di una generazione. Mi chiedo se abbiamo pienamente trasmesso la memoria storica (Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo).
Sono trascorsi ventuno anni dalla strage di Capaci. Il tempo di una generazione. Mi sono talora chiesto se noi che per ragioni di età fummo testimoni del tempo in cui Giovanni Falcone visse e concluse la sua parabola, abbiamo pienamente adempiuto in questi anni al compito di trasmettere la memoria storica, il senso profondo della tragica e complessa storia collettiva di cui egli fu al contempo  protagonista e vittima sacrificale....
 
Il dubbio mi assale perché mi sembra che un' intera  generazione di  giovani magistrati e di giuristi che oggi ha più o meno trent'anni, e, dopo di loro, una generazione di ventenni che si affaccia al mondo del lavoro, di quella storia conosca solo l'epilogo finale (il boato di Capaci)  e pochi frammenti retrospettivi (la vicenda del maxi processo), frammenti selezionati e riproposti dal sistema dei media e dalla retorica ufficiale in occasione delle cerimonie celebrative. 
Alla memoria collettiva, trasmessa nella staffetta delle generazioni, viene così consegnata una narrazione tragica e nello stesso tempo non problematica degli eventi, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone fu un fedele servitore dello Stato condannato a morte e poi trucidato unitamente alla moglie Francesca Morvillo, a Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Dicillo, componenti della sua scorta, perché con il suo lavoro di integerrimo magistrato, culminato nelle condanne inflitte nel maxi processo, aveva sferrato un colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della invincibilità dell'organizzazione mafiosa.
I responsabili sono stati  condannati ed hanno i volti noti di coloro che l'immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta.
Questa rappresentazione  dei fatti che riassume  la vicenda Falcone in una radicale contrapposizione tra un uomo simbolo dello Stato legalitario ed una minoranza di criminali, seppure appartenenti ad una potente organizzazione, non rende giustizia, a mio parere, alla grandezza e ai meriti di Falcone perché rischia di rimuovere  dalla memoria collettiva che egli dovette misurarsi non solo con Cosa Nostra, ma anche con  un universo sociale, variamente composito, che per motivi diversi lo avversò in tutti i modi, in parte rallentando ed in parte neutralizzando la sua azione.
Questa parte della storia -  spesso negletta nelle cerimonie ufficiali e confinata nel limbo della letteratura specialistica o affidata alla memoria dei superstiti -  chiama in causa errori e responsabilità collettive che hanno avuto un rilievo determinante  nello svolgimento degli eventi di cui la strage di Capaci costituisce solo l'epilogo finale.
Errori  e responsabilità che vanno ricordati non con l'animus di voler quasi processare il passato, operazione questa che sarebbe sterile, ma perché il passato custodisce una preziosa lezione che va meditata per il futuro, affinché certi errori non abbiano più a ripetersi, soprattutto in un tempo come l'attuale, segnato da una grave crisi dei valori di legalità e di credibilità delle istituzioni. 

La rievocazione di questa parte della storia, alla quale vengono in genere solo dedicati fugaci cenni, vorrei affidarla, per quanto possibile, alle stesse  parole sofferte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino che ebbero a subirla in prima persona.
Sono parole sofferte quelle che  Paolo Borsellino, pronunciò il 23 giugno 1992 in un discorso tenuto alla Biblioteca comunale di Palermo, commemorando Giovanni Falcone a distanza di un mese dalla strage di Capaci.
Mi pare significativo che colui il quale fu il migliore amico di Giovanni e che ne condivise la sorte nella vita e nella morte, nel rievocare la strage di Capaci non focalizzi in quella occasione la sua attenzione, come sarebbe logico attendersi, sugli esecutori ed i mandanti della strage, ma piuttosto  sui tanti che egli individua come responsabili dell'ostracismo  che aveva condannato Falcone all'isolamento, indebolendolo progressivamente e costringendolo a lasciare il palazzo di Giustizia di Palermo.

Ecco un estratto delle parole di Paolo:

"Ho letto giorni fa, o ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto [..]ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988 [.]

Borsellino ricorda quindi le responsabilità di coloro che agli inizi del 1988 si erano attivamente impegnati per impedire che Giovanni Falcone venisse nominato capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, succedendo a Caponnetto, e come lui avesse rischiato di essere sottoposto a procedimento disciplinare solo per avere denunciato alla pubblica opinione che il pool antimafia di Palermo era stato smobilitato e Falcone ridotto all'impotenza.

.. per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze personali gravissime, ma quel che è peggio, il Csm immediatamente scoprì qual era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, Falcone poteva essere eliminato al più presto. E forse questo io l'avevo pure messo nel conto, perché ero convinto che l'avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l'opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.  
 
Ed ora lascio la parola a Giovanni Falcone il quale per salvare Paolo Borsellino dal procedimento disciplinare al quale si era esposto con quella pubblica denuncia, ruppe il suo tradizionale riserbo comunicando il 30 luglio 1988 al CSM e al Presidente del Tribunale la sua richiesta di lasciare l'ufficio istruzione:

"Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. [...] Il ben noto esito di questa vicenda (ndr. si riferisce alla vicenda della nomina di Meli a capo dell'Ufficio istruzione) non mi riguarda sotto l'aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale.
Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere.
Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell'ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti.
Come risposta è stata innescata un'indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia.
Tuttavia, essendo prevedibile che mi saranno chiesti chiarimenti sulle questioni poste sul tappeto dal procuratore di Marsala, ritengo di non poterlo fare se non a condizione che non vi sia nemmeno il sospetto di tentativi da parte mia di sostenere pretese situazioni di privilegio (ciò, inevitabilmente, si dice adesso a proposito dei titolari di indagini in tema di mafia).
E allora, dopo lunga riflessione, mi sono reso conto che l'unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare immediatamente ufficio...  

Come è noto le dimissioni di Falcone furono respinte, l'allarme di Borsellino venne ignorato, il pool antimafia venne smobilitato e le inchieste su Cosa Nostra  prima centralizzate nell'Ufficio istruzione vennero disseminate  in una molteplicità di uffici giudiziari siciliani, determinando così l'esito infausto delle indagini che vennero in larga misura archiviate. 

Ma, soprattutto, restò incompiuto il programma di indagine che il pool aveva preannunciato  nella motivazione della Sentenza - Ordinanza del maxi processo  nella quale venivano individuate due aree alle quali sarebbe stata prestata la massima attenzione:

"alcune attività della c.d. criminalità dei colletti bianchi in tema di riciclaggio di denaro [..] e [..] manifestazioni di connivenza e collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni (che) possono realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa" ( Sentenza - Ordinanza Trib. Palermo 8 novembre 1985, pp. 4125 - 4126).  

Quella parte della sentenza - ordinanza preannunciava i futuri possibili sviluppi di una strategia antimafia che, in coerenza con il dettato costituzionale degli artt. 3 e 112 Costituzione, articolava la risposta giudiziaria a tutti i livelli del sistema di potere mafioso: i componenti organici dell'organizzazione ed il vastissimo e variegato mondo di colletti bianchi collusi, appartenenti al mondo politico, imprenditoriale e finanziario, che con il metodo mafioso e grazie alla mafia avevano costruito fortune economiche e carriere.
 
Non è certamente un caso che l'incessante campagna di delegittimazione nei confronti del pool antimafia, che sfocerà nell' emarginazione di Giovanni Falcone, avesse preso un ritmo incalzante proprio quando il pool, dopo avere tratto in arresto centinaia di esponenti dei quadri intermedi e di comando della mafia militare, aveva attinto  con le indagini anche i livelli superiori che  coinvolgevano il mondo politico ed economico: il 3 novembre 1984 era stato arrestato Vito Ciancimino, il successivo 12 novembre le manette si erano strette ai polsi dei cugini Nino e Ignazio Salvo, terminali regionali di un ramificato sistema di potere nazionale.

La stagione degli intoccabili sembrava volgere alla fine. Molti a Palermo e a Roma cominciano a temere il peggio. A chi sarebbe toccato dopo i Salvo e Ciancimino? 

I processi celebrati dopo la stagione stragista del 1992 - 1993 e le sentenze penali emesse in questi ultimi venti anni hanno gettato  una vivida luce retrospettiva sul passato,  consentendo  oggi di delineare la fisionomia complessiva  dell'immane sistema di potere regionale e nazionale che aveva ben  ragione di temere l'azione di un  pool antimafia che appariva come una pericolosa variabile indipendente rispetto agli  equilibri di potere esistenti.

Giovanni Falcone, che di quel pool era stato l'anima, aveva già dimostrato in precedenza di essere in grado, seguendo la pista dei capitali illegali, di  arrivare nei santuari finanziari dove confluivano, come in un unico  mare magnum, i fiumi carsici dei soldi della droga, delle tangenti politiche, dei capitali piduisti.

Mi riferisco alla vicenda delle banche di Sindona, di Calvi e alla torbide connessioni tra mafia, P2 e tangentopoli che Falcone aveva portato alla luce nel processo Spatola- Inzerillo.
Il pool antimafia si preparava ora nella seconda metà degli anni Ottanta,  a proseguire coerentemente la sua opera, valicando con l'arresto dei Salvo e di Ciancimino le colonne d'Ercole dei rapporti mafia - politica. 
Ed è proprio a quel punto che scatta la reazione di rigetto da parte  di un sistema che - come hanno dimostrato decine di sentenze definitive - comprendeva a vario titolo anche personaggi apicali del mondo istituzionale, politico, di quello economico e finanziario.  
Un sistema che, agendo nell'ombra, era in grado di mettere in campo potere di influenza,  raffinate strategie di delegittimazione, relazioni con soggetti appartenenti ad apparati istituzionali  - talora complici e talora in buona fede - per conseguire lo stesso risultato che la mafia corleonese tentava di raggiungere contemporaneamente con metodi cruenti: fermare Giovanni Falcone, porre fine ad una stagione dell'antimafia giudiziaria in grado di destabilizzare i consolidati assetti esistenti, garanzia e presupposto per i lucrosi affari, per gli illeciti arricchimenti di tanti, interni ed esterni all'associazione mafiosa. 
Ed è per questo motivo che a Giovanni  non fu data requie neppure dopo avergli impedito di proseguire il suo lavoro all'Ufficio Istruzione.
Non si erano ancora spenti gli echi della vicenda della sua bocciatura a capo dell'Ufficio Istruzione e della smobilitazione del pool antimafia, che egli viene investito da un tentativo di omicidio mediatico.

Mi riferisco alla vicenda delle lettere del c.d. Corvo, una sequenza di lettere anonime che nella  sostanza lo accusavano di avere dato licenza di uccidere al collaboratore di giustizia Salvatore Contorno, autorizzandolo a tornare segretamente in Sicilia per eliminare i propri antagonisti dell'avverso schieramento corleonese.
Non si era ancora conclusa la vicenda del Corvo che, in una sorta di gioco al rialzo nel quale la delegittimazione morale prepara il terreno per la soppressione fisica -  il 21 giugno 1989 viene messo a punto  l'attentato dell'Addaura, pianificato da soggetti che Falcone definì subito come  "menti raffinatissime", alludendo a intelligenze criminali appartenenti ai mondi superiori che sovrastavano quelli inferiori della mafia corleonese.

Per avere un' idea del clima di accerchiamento nel quale egli si trovò ad operare e della vastità del fronte che gli era avverso, nel quale si saldavano interessi convergenti di diversa natura, è bene ricordare che  subito dopo l'attentato dell'Addaura viene fatta circolare, anche all'interno di alcuni ambienti istituzionali, la voce calunniosa che si trattava di un falso attentato orchestrato dallo stesso Falcone per indurre il CSM a nominarlo, sull'onda dell'emotività del momento, alla carica di Procuratore Aggiunto di Palermo, scavalcando così gli altri concorrenti.
Ma Falcone non dovette misurarsi solo contro i progetti di morte della mafia corleonese, contro gli ininterrotti ed  insidiosissimi attacchi esterni orditi da menti raffinatissime, egli è costretto  contemporaneamente a difendersi anche sul fronte interno dalle accuse che gli vengono mosse da una parte della magistratura e della cultura giuridica che gli contesta di avere stravolto il  ruolo istituzionale del giudice  trasformandosi in un "giudice sceriffo",  definizione negativa che viene rilanciata dal sistema mediatico.
Egli coglie subito l'insidiosità di quella accusa che mirava a delegittimarlo all'interno stesso dell'ambiente giudiziario, isolandolo ulteriormente. Proprio per questo motivo, si vede costretto a ribattere  intervenendo più volte sull'argomento con saggi e articoli giuridici nei quali dimostra il suo straordinario spessore culturale e la sua profonda interiorizzazione dei valori costituzionali che aveva tradotto nella prassi applicativa: Così nell'articolo "Controllo sociale nel Mezzogiorno. Il ruolo sociale nella  magistratura " scrive:

"Sono fioccate [.] critiche e perplessità sull'operato della magistratura: sempre più frequentemente, si è parlato dello stravolgimento del ruolo istituzionale della magistratura a opera di magistrati che hanno violato il principio della «terzietà» del giudice, improvvisandosi investigatori e usurpando le funzioni specifiche della polizia giudiziaria. Da taluni settori si è affermato anche che l'eccessivo impegno degli inquirenti nella repressione delle varie forme di criminalità organizzata ha distolto l'attenzione dalla delinquenza comune, la cosiddetta microcriminalità, con la conseguente recrudescenza di reati contro il patrimonio, come le rapine e gli scippi, che destano tanto allarme nella società. E la stessa instaurazione dei maxiprocessi è spesso attribuita a colpa del protagonismo dei giudici e a un asserita volontà di conculcare e sopprimere il diritto di difesa degli imputati. Non si è mancato, poi, di sottolineare che iniziative della magistratura nel settore economico hanno determinato gravi guasti all'economia meridionale, e siciliana in particolare, provocando il peggioramento del fenomeno, di per sé gravissimo, della disoccupazione[.]

.. spesso si dimentica che, per quanto concerne la criminalità organizzata, l'intervento della magistratura riguarda l'individuazione dei responsabili digravissimi crimini, e che l'esercizio dell'azione penale, nel nostro ordinamento giuridico, è costituzionalmente previsto come obbligatorio (art. 112 della Costituzione). Sarebbe, dunque, responsabile di colpevole inerzia quel magistrato che si astenesse dal tentare di accertare gli autori di reati sol perché la mafia e le altre organizzazioni similari costituiscono un problema che non è risolvibile, come spesso stancamente si ripete, con l'intervento repressivo statuale [..]. Non credo che qualcuno voglia sostenere che le centinaia di assassini provocati, negli anni '81-83, dalla cosiddetta guerra di mafia debbano essere archiviati per essere rimasti a opera di ignoti senza nessun serio tentativo per scoprire i colpevoli. E quando, di fronte a omicidi gravissimi di uomini politici e di pubblici funzionari, si intuisce che le causali e i mandanti sono, le prime, particolarmente complesse e, i secondi, annidati all'interno delle pubbliche strutture, non credo che qualcuno voglia sostenere una sostanziale impunità per tali crimini, che sono obiettivamente destabilizzanti e minano le basi della società e dell'ordine democratico.
E allora, se non si vuole affermare che la gravità e complessità del fenomeno criminale comporti l'astensione dall'attività repressiva da parte della magistratura, deve necessariamente convenirsi che la risposta degli organi repressivi statuali alla consumazione di delitti particolarmente complessi e numerosi non solo è doverosa e rientra nei limiti dell'attività istituzionale della magistratura, ma non può che essere articolata e impegnare in modo eccezionale le strutture statuali. Se, poi, col richiamo, a mio avviso improprio, alla cosiddetta supplenza della magistratura si intende dire che, a fronte degli interventi repressivi, non sono stati tuttora posti in essere quegli altri interventi necessari per rimuovere le radici e le cause del fenomeno mafioso, si pone un ben diverso problema: tali considerazioni possono essere o meno condivise, ma deve essere ben chiaro che, nell'attività diretta alla repressione dei reati, la magistratura adempie semplicemente i propri doveri istituzionali senza alcun margine di discrezionalità e senza alcun straripamento nei campi di intervento riservati agli altri pubblici poteri [.]

Meritano, invece, seria riflessione quelle critiche che, facendo riferimento alla «terzietà» del giudice come valore insopprimibile del suo ruolo istituzionale, sostengono che la stessa sia stata stravolta dallo svolgimento diretto delle indagini da parte del pubblico ministero e del giudice istruttore che, in siffatta maniera, si sarebbero trasformati in superinvestigatori, determinando un'assoluta contusione dei ruoli con la polizia giudiziaria. Al riguardo, giova, anzitutto, premettere che, in un processo penale di tipo inquisitorio qual è quello vigente, il concetto di «terzietà» del giudice istruttore rischia di non far comprendere, se malamente inteso, i termini esatti del problema. Certamente, il magistrato non può avere confidenti, né eseguire materialmente i pedinamenti o intercettazioni telefoniche, né, in genere, compiere quelle attività che sono squisitamente di polizia giudiziaria. Ma è contraria al ruolo del magistrato inquirente, sia esso pubblico ministero o giudice istruttore, qual è disegnato dal vigente codice di rito penale, quell'opinione che lo vorrebbe inerte organo di semplice verifica della prova raccolta dalla polizia giudiziaria.
In un processo come quello penale italiano, diretto all'accertamento della verità materiale o storica, il magistrato inquirente deve compiere ogni atto diretto all'accertamento della verità, indipendentemente dall'iniziativa della polizia giudiziaria. In proposito, diverse norme sono esplicite in tale senso. L'art. 1 del codice di procedura penale prevede che l'azione penale è iniziata dai procuratore della Repubblica o dal pretore in seguito a rapporto, a referto, a denunzia o ad altra notizia di reato. L'art. 232 stabilisce che il procuratore della Repubblica, prima di iniziare l'istruttoria sommaria o richiedere l'istruzione formale, può procedere ad atti di polizia sia per mezzo di ufficiali di polizia giudiziaria, sia direttamente. E, per quanto riguarda il giudice istruttore, l'art. 299 stabilisce che il medesimo ha l'obbligo di compiere tutti gli atti che appaiono necessari per l'accertamento della verità, e l'art. 220 che la polizia giudiziaria deve eseguire gli ordini del giudice istruttore. E non si dimentichi che, perfino nel dibattimento, proprio perché nel processo penale di tipo inquisitorio si mira all'accertamento della verità storica o materiale, sussistono profili di disponibilità della prova di ufficio, da parte dello stesso organo giudicante (art. 457 del codice di procedura penale)".

Nel saggio "Emergenza e Stato di diritto", aggiunge poi: 

"Qualcuno, forse, potrà rimpiangere i "bei tempi andati" in cui il pubblico ministero si limitava a dare una prima scrematura degli elementi di prova forniti dalla polizia giudiziaria, e il giudice istruttore soleva compiere un'ulteriore verifica delle prove, spesso con effetto di ulteriore ridimensionamento dei rapporti di denunzia. E io ricordo ancora quell'alto magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e occorre lasciare che la polizia svolga tranquillamente le indagini. Ciò del resto - per fortuna in settori sempre meno estesi - è talora l'atteggiamento di alcuni ufficiali di polizia giudiziaria, che  mal sopportano e ritengono essere una indebita ingerenza il diretto coordinamento delle indagini da parte del magistrato istruttore. In realtà, bisogna che tutti si rendano conto che il modello di magistrato inerte e privo di spirito di iniziativa, se poteva essere rispondente alle esigenze di un determinato periodo storico e funzionale ad un determinato equilibrio socio-politico, non è mai stato fondato su un uso legittimo dei poteri istituzionali".   

L'accenno  di Falcone al rimpianto da parte di alcuni dei "bei tempi andati", alcuni  che egli definisce ancora legati ad un modello di magistrato inerte  e privo di spirito di iniziativa rispondente "alle esigenze...funzionali ad un determinato equilibrio socio - politico",  fa riferimento  ad un establishment  politico istituzionale che, in significative sue componenti, appariva ancora imbevuto di una cultura precostituzionale e  non aveva  interiorizzato la nuova gerarchia di valori introdotti dalla Costituzione del 1948. 
Una Costituzione che, ribaltando una secolare tradizione di subordinazione della magistratura al potere politico, aveva garantito la piena indipendenza dell'Ordine giudiziario dal potere esecutivo e coerentemente - come osserva lucidamente Falcone -  con l'art. 109 Cost. aveva sancito che la magistratura disponeva direttamente della polizia giudiziaria.
Questo ribaltamento costituzionale dei rapporti tra politica e legge, pietra angolare del nuovo stato costituzionale di diritto fondato sul primato delle legge, si traduceva - come spiegava Falcone - anche in un nuovo modello di giudice non più terminale passivo delle indagini svolte autonomamente dalla Polizia, promanazione del potere esecutivo, ma propulsore e coordinatore attivo della direzione delle indagini svolte da una Polizia funzionalmente subordinata alla magistratura.

Se si considera che durante la trascorsa legislatura è stata avanzata da autorevoli esponenti del ceto politico la proposta di  privare il pubblico ministero del potere di iniziare autonomamente le indagini conferendo solo alla Polizia il compito di acquisire la notizia criminis, ci si può rendere conto dell'attualità dell'insegnamento di Falcone.
 
Nel contesto dei suoi articoli Falcone spiega come il nuovo quadro di valori costituzionali che si traduceva nella prassi giurisdizionale seguita dal pool antimafia,  avesse determinato reazioni di rigetto non solo nel mondo politico, ma anche in quello istituzionale e all'interno della stessa magistratura.

Con l'accenno "all'alto magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e occorre lasciare che la polizia svolga tranquillamente le indagini", Falcone fa riferimento ad un  episodio che lo riguardava personalmente.

Un episodio  che Rocco Chinnici,  capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo, aveva annotato nel suo diario personale ritrovato dopo che egli il 29 luglio 1983 era stato ucciso con un auto bomba all'uscita dalla sua abitazione in via Pipitone Federico insieme a due carabinieri della scorta e al portiere dello stabile,  per avere osato alzare il livello delle indagini sui colletti bianchi della mafia, come è stato accertato nel processo per quella  strage celebrato a Caltanissetta. 

Si tratta di un episodio che merita di essere ricordato perché dipinge in modo emblematico la contrapposizione tra due diverse anime della magistratura che si tradurrà in una frattura interna al Palazzo di Giustizia di Palermo: la prima anima è quella, allora minoritaria, incarnata da magistrati come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo  Borsellino  ed  altri. 
La seconda anima appariva invece - anche per ragioni di vischiosità culturale dovuta a fattori generazionali -ancorata ad un ruolo della magistratura come subordinato alle compatibilità generali del sistema socio - politico.

Alla pagina del diario  del  18 maggio 1982, Chinnici fa il seguente   analitico resoconto di un colloquio  avvenuto quel giorno con il Presidente della Corte di Appello e che riguardava proprio  Giovanni Falcone:

ore 12 - [Il Presidente] Mi investe in malo modo dicendomi che all'ufficio istruzione stiamo rovinando l'economia palermitana disponendo indagini ed accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che "cerchi di scoprire nulla perchè i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla". [..] Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà ad ispezionare l'ufficio (ed io lo invito a farlo [.]l'uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia ... non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche". 

Di episodi simili Chinnici ne aveva annotati parecchi.
Un altro che  pure riguardava Falcone si trova annotato alla pagina del 14 luglio 1981, dove  si legge:

ore 13. G. Falcone mi comunica che il Primo Presidente della Corte gli ha caldamente raccomandato il cavaliere del lavoro Graci implicato nella faccenda Sindona; dopo averlo convocato nel suo ufficio.    

Questo fronte interno della magistratura si rivelerà per Falcone uno degli ostacoli più gravi alla sua azione. Dopo essere stato ridotto all'impotenza all'Ufficio Istruzione, egli si era infatti illuso di potere proseguire la sua opera alla  Procura di Palermo.
Ma dopo pochi mesi,  aveva dovuto constatare di essere  escluso - come egli annoterà nel diario trovato dopo la morte e come io potei constatare personalmente - da tutte le indagini che travalicavano il livello del contrasto alla mafia militare ed attingevano i livelli superiori: così gli era stato precluso di indagare sul possibile ruolo svolto dalla organizzazione Gladio nella perpetrazione di alcuni delitti politici mafiosi; sui rapporti tra la mafia e alcuni vertici della P2, sui torbidi intrecci tra mafia ed economia nel settore degli appalti pubblici.

Resosi conto di essere stato nuovamente ridotto all'impotenza, mi confidò che doveva andare via perché restando in quella Procura il suo nome rischiava di perdere credibilità  giorno dopo giorno e di divenire la foglia di fico che occultava la sostanziale inazione della Procura sui fronte cruciale  dei rapporti mafia-potere-economia.
Sono rimaste impresse nella mia mente le ultime parole che egli pronunciò nella stanza del Procuratore capo di Palermo in mia presenza e di altri sostituti  quando agli  inizi del 1991 si congedò dalla Procura di Palermo, per assumere il nuovo incarico di Direttore generale degli affari penali presso il  Ministero della Giustizia a Roma. 
" E' penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo Palazzo, constatare che tranne pochi, tutti sono contenti che me ne sto andando.. "

Erano passati tre anni dalla lettera che prima ho citato del  30 luglio 1988, era cambiato l'ufficio dove lavorava, ma la sua solitudine e l'ostracismo che lo circondavano erano rimasti costanti.
Era l'anno  1991 quasi a ridosso della strage di Capaci e qui concludo  riannodandomi  all'incipit della mia commemorazione.
Io credo che se vogliamo rendere onore a Giovanni Falcone e a coloro che il 23 maggio 1992 condivisero la sua sorte, non possiamo limitarci a ricordare esclusivamente le responsabilità penali accertate della mafia corleonese.
Non passiamo confinare in una sorta di cono d'ombra della memoria - come se si trattasse di storie a margine non incidenti sul corso degli eventi - le responsabilità, le complicità, le connivenze di tanti, di troppi colletti  bianchi che in vario modo hanno contribuito nel tempo ad alimentare la potenza del sistema di potere mafioso.
 Proprio per questo motivo, Paolo Borsellino la sera del 23 giugno 1992 ricordava a tutti dolorosamente come non erano certo stati i corleonesi a fermare Falcone prima nel 1988 all'Ufficio istruzione di Palermo e poi alla Procura di Palermo, costringendolo  alla fine ad andar via da Palermo. A fermare Falcone, a neutralizzarlo  erano stati quelli che Borsellino quella stessa sera del 23 giugno 1992 definisce gli "ingiusti", ampia categoria antropologica nella quale egli ricomprende non solo i tanti grandi e piccoli Don Rodrigo che affollavano la scena dei potenti, non solo i tanti sepolcri imbiancati che si battevano il petto dopo avere occultamente ostacolato Falcone,  ma anche un nutrito stuolo  di Don Abbondio che -  per citare le sue testuali  parole -   talora per non rinunciare "a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini", avevano consegnato Falcone alla sua solitudine, rendendosi complici, a vario titolo, del prevalere del male di mafia, del male oscuro del potere.

Nella prospettiva di Borsellino, tutti costoro non potevano chiamarsi fuori, proiettando catarticamente la  responsabilità esclusiva  del male di mafia solo sui carnefici che il 23 maggio 1992 a Capaci avevano chiuso  definitivamente una  partita che era stata giocata a lungo negli anni precedenti, e che aveva visto  scendere in campo accanto ai carnefici una pletora di complici, sia che tale complicità si declinasse sul piano penale, sia che si declinasse su altri piani non meno rilevanti per il corso degli eventi. 

La lezione della storia, una lezione che non va dimenticata, insegna che in questa nostra terra non è solo il tritolo ad uccidere, non è solo il piombo delle pallottole a fermare coloro che operano per il bene comune:  è piuttosto un mix micidiale di violenza criminale, di cinismo del potere, di opportunismi di bassa lega e di atonia morale.
E' questo mix micidiale che ha segnato la storia di Giovanni Falcone e di tanti altri assassinati prima e dopo di lui, compreso Paolo Borsellino che la sera del 23 giugno 1992 ci ha lasciato il monito che ho voluto ricordare, sapendo di essere egli stesso prossimo a morire ancora una volta  per mano mafiosa ma non solo per volontà mafiosa, come egli confidò alla moglie Agnese dicendole: "Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno".
E' compito dei processi accertare le responsabilità penali sottese a stragi e omicidi, ma certo, per quanto ho sin qui ricordato, sarebbe un falso storico ritenere che la tormentata storia  di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino sia riducibile solo alla dimensione puramente penale.  La loro vicenda  è piuttosto parte integrante della travagliata storia della Nazione, una storia nella quale i diversi piani della politica, della economia e della violenza criminale troppo spesso sono confluiti in un perverso ed indistinto magma che ha falcidiato i migliori tra noi e che tutti ci chiama in causa a vario titolo.

Rendere onore ai nostri caduti, dare un senso al loro sacrificio, fare memoria significa prendere atto che il male di mafia non è stato solo fuori di noi, ma anche tra noi, significa  dunque fare i conti con il nostro passato e con noi stessi, affinché ciò che è già accaduto non abbia mai più a ripetersi.

Commemorazione di Giovanni Falcone
Aula Magna Palazzo di Giustizia di Palermo
23 maggio 2013
(Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo)

In foto:
un primo piano tratto da una fotografia d'archivio della *fotoreporter Shobha

Fonte:  http://www.antimafiaduemila.com/2013052343032/primo-piano/qil-doppio-fronte-che-accerchio-falconeq.html.

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