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venerdì 12 aprile 2013

18/02/'13-Fausto Bertinotti: "Perchè non vale(va) la pena firmare l'appello di Umberto Eco".

 PS: Vi invito alla lettura di un'articolo, scritto e pubblicato in tempi non sospetti(18 febbraio 2013), del tanto "vituperato e criticato" Fausto Bertinotti: sembra scritto questa mattina!
umberto marabese
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 Personalità di primo piano della cultura democratica italiana hanno sottoscritto un appello, primo firmatario Umberto Eco, per un voto a favore del centrosinistra alle ormai vicine elezioni. Il più eminente esponente della sinistra italiana, Pietro Ingrao, si è espresso autonomamente nella stessa direzione. Malgrado l’autorevolezza dei firmatari, se si trattasse solo di una scelta di voto, non troverei ragione, oggi, per dibatterne pubblicamente.
Lo stato drammatico della politica e del sistema politico-istituzionale del paese, la crisi di prospettiva della sinistra, testimoniate, da ultimo, anche da un’orribile campagna elettorale, rende la scelta di voto legata alla storia personale di ognuno e a propensioni individuali di non facile diffusione.
Del resto altre personalità della sinistra si accingono a votare per la lista Ingroia e ne conosco direttamente altre ancora che voteranno per la lista di Grillo.
Quelle che, invece, andrebbero discusse in uno spazio pubblico sono le tesi che vengono affacciate nell’appello perché esse, secondo il linguaggio della tradizione, sono di ordine strategico. Esse riguardano, infatti, la relazione tra il governo del paese, la democrazia, il rapporto tra le classi e tra queste e l’assetto istituzionale. Ed è proprio il ragionamento su questo ordine di cose che nell’appello non convince affatto. C’è, alla sua base, un’omissione non innocente e, io credo, capace di falsarne l’intera argomentazione.
L’omissione riguarda l’Europa reale, la costituzione materiale che ne sta definendo la natura sociale regressiva e il connesso ritorno dell’élites in un ordinamento postdemocratico, sostanzialmente oligarchico. Di fronte alla tremenda sfida che promana da questo processo l’unico cenno che si trova nell’appello riguarda l’esigenza, per il prossimo governo, di essere “rispettabile a livello europeo”, ma per questo basta Monti. Il punto è che, nell’appello, si ragiona come se si trattasse, con il voto di domenica, di scegliere il governo di uno stato nazionale autonomo e sovrano e non piuttosto, com’è nella realtà, di una tessera di quel mosaico che forma la governabilità di questa Europa reale.
Ma trascurare di fare i conti con il vincolo esterno, ora che si è fatto tanto stringente da introdurre nella Costituzione il dogma liberista della parità di bilancio, significa ridurre ogni programma di governo a parola scritta sulla sabbia. Mario Draghi, lucidamente, dal punto di vista del processo economico e sociale che si sta imponendo, ha prospettato l’avanzamento dell’integrazione europea e del suo governo unitario sotto la guida della condizionabilità, cioè subordinandola all’accettazione, da parte dei governi nazionali, del vincolo esterno al fine di demolire sistematicamente lo stato sociale e il contratto collettivo di lavoro, cioè quei capisaldi del compromesso democratico del ciclo storico precedente, considerati oggi incompatibili con la nuova Europa del capitalismo finanziario globale. La disoccupazione di massa, la crisi della coesione sociale, l’esplodere delle diseguaglianze che ci hanno investito sono le conseguenze sociali della crisi e della risposta che l’Europa ha dato ad essa.
Come si fa ad attendersi “un colossale mutamento di rotta nei confronti delle classi lavoratrici e dei ceti dirigenti” senza che venga messo in discussione ciò che determina gli attuali rapporti sociali? Però nessun governo in carica lo fa e nessun programma per un nuovo governo se lo propone. Il centrosinistra in tutta Europa si colloca all’interno di questo quadro, con una propria ispirazione, ma al suo interno. L’ispirazione è una ennesima variante di quella social-liberale: ferme le politiche di rigore, rinnovata l’adesione alla filosofia della competitività, si affermano parimente l’esigenza di integrarle con dei correttivi sociali e per lo sviluppo. Nel centro-sinistra hanno abitato anche monocolori socialisti, non bisognosi di quale che sia alleanza, autosufficienti.
L’esperienza di governo nella crisi ha devastato il Pasok. Oggi, in un grande paese come la Francia, il governo di Hollande, dopo una bella vittoria elettorale, sprofonda, secondo tutti i sondaggi, nel consenso popolare. La resa del governo ai mercati nella vicenda della Mittal non è apparsa affatto come un caso eccezionale. Del resto domenica nell’editoriale di Le Monde si leggeva: “Dans les semaines qui viennent, pour convaincre Bruxelles, le gouvernement va donc devoir présenter un programme précis d'économies. Toutes seront douloureuses”. L’accettazione della parità di bilancio, del fiscal compact, il compromesso sistemico con la guida tedesca del convoglio, definisce la collocazione strategica del centro-sinistra in Europa. Su quel versante, rien ne va plus. Il centro-sinistra italiano non è certo l’eccezione. Del suo profilo programmatico si dovrebbe perciò discutere piuttosto che dell’alleanza con Monti. Del resto è stata la sua esposizione alle politiche di rigore che non ha consentito al Pd di impedire la nascita del governo Monti, come avrebbe potuto, con il ricorso alle elezioni.
Così come quella stessa cultura politica ha impedito di vedere il carattere costituente dello stesso governo Monti nel concerto della costruzione di questa Europa reale. Persino in una campagna elettorale in cui se lo è trovato come competitore, Monti è stato criticato dal centro-sinistra per delle sgrammaticature politiche, per certe sue idee di relazioni tra i soggetti politici, per qualche spezzone di proposta, ma mai è stato denunciato il suo impianto generale. Torna la questione illustrata dall’Europa reale; quello è lo spartiacque per chi voglia intraprendere la via delle riforme sociali. Semmai la specificità italiana lo accentua, dunque lo rende ancor più insormontabile politicamente, un aut aut. Da noi il rovesciamento del conflitto di classe, di cui ha parlato Luciano Gallino, è del tutto squadernato. Marchionne ne è la punta di lancia con la proposta di un modello aziendale intrinsecamente autoritario.
Diversamente dalla Fiom, il centro-sinistra ha scelto di non vederne il carattere più generale, di società. Come a livello macroeconomico, per le politiche di bilancio, così a livello microeconomico, per le politiche dell’impresa, non è stato messo in campo un pensiero critico, né la ricerca di un’alternativa di società, né la ricerca della forza per riaffermarla. Perché dal governo dovrebbe venire quel cambiamento che neppure è stato prima prospettato dalle forze che lo dovrebbero comporre? E come potrebbe esso realizzarsi nell’accettazione di quella cornice europea che porta con sé già l’essenziale del quadro? Se poi si volesse davvero insistere sul caso italiano non ci si potrebbe ormai più sottrarre al suo specifico, cioè al collasso del suo sistema politico e alla crescente delegittimazione della sua classe dirigente.
Basti pensare a quel che sta accadendo in queste settimane, alla bufera che investe grandi aziende pubbliche, grandi banche e tanta parte della finanza privata, cosicché la corruzione diventa un grande problema politico. Ma questa classe dirigente non è anche tanta parte della forza messa in campo in questi anni per perseguire le linee di politica economica e i rapporti sociali affermatisi con la costruzione dell’Europa reale, al contrario di quella di cui ci sarebbe stato bisogno? Eppure non si vede all’orizzonte alcuna idea di rottura, di costruzione di una nuova classe dirigente del paese in discontinuità con l’attuale, sicché la questione del governo del paese se da un lato risulta sussunto dentro l’Europa della Troika, dall’altro, nel paese, risulta come un caciocavallo appeso, privo della nervatura sociale necessaria per essere protagonista della sua storia futura. L’autorevolezza di un appello al voto può allora favorire una qualche propensione a compiersi, ma il suo contenuto politico non convince affatto, se il tema è quello del cambiamento. Se no, perché il voto di protesta sta diventando un’onda imponente che scavalca le sinistre per depositarsi su altri lidi?


     18 febbraio 2013




 


 

   

 


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